Non si tratta, in realtà, di un termine nuovissimo: se ne registrano già usi in ambito accademico, riferiti soprattutto agli studi sui flussi migratori, dove può indicare il ritorno volontario nei Paesi d’origine. Tuttavia, negli ultimi due anni, il termine ha avuto una netta impennata d’uso, in particolare nelle lingue tedesca e inglese, ma anche nel discorso politico italiano.
Nella sua forma inglese, remigration, secondo l’Oxford English Dictionary la prima attestazione risale al 1608 negli scritti di Andrew Willet, ecclesiastico della Chiesa d’Inghilterra e polemista religioso.
In italiano, il verbo “remigrare” appare con il significato di “ritornare nel luogo d’origine” già in Giordano Bruno, nello Spaccio della bestia trionfante, pubblicato a Londra nel 1584.
Negli ultimi anni, il termine è stato riattivato politicamente da diversi movimenti dell’estrema destra. Il partito tedesco AfD e il movimento francese Génération Identitaire lo hanno fatto circolare come parola chiave per sostenere l’idea di una “sostituzione etnica inversa”, secondo la quale bisognerebbe “riportare indietro” gli immigrati, in linea con le teorie cospirazioniste della cosiddetta “grande sostituzione”. Teorie che affondano le proprie radici in un suprematismo europeo da tempo pericolosamente diffuso.
Il fatto che nel 2023 la parola remigration sia stata eletta in Germania “Unwort des Jahres”, è significativo; eleggerla come “non-parola dell’anno” è un modo per mandare un chiaro messaggio: prestate attenzione a questa parola, perché potrebbe essere pericolosa.
L’iniziativa della Unwort des Jahres, nata nel 1991 dal linguista Horst Dieter Schlosser, premia annualmente i termini ritenuti più fuorvianti, disumanizzanti o ideologicamente manipolatori del discorso pubblico. L’obiettivo è quello di sensibilizzare la popolazione a una maggiore consapevolezza linguistica, richiamando l’attenzione proprio sui termini più “problematici”.
Nonostante la parola italiana “remigrazione” funzioni perfettamente dal punto di vista morfologico, si tratta comunque di un adattamento diretto dell’inglese remigration, a sua volta derivato dal latino remigrare (“migrare di nuovo” o “tornare indietro”). Il prefisso re-, diffusissimo nella lingua italiana, spesso è seguito da un verbo, e indica la ripetizione di un’azione.
Nel 2025, il termine è stato segnalato tra i neologismi della Treccani, anche se non compare ancora nei principali dizionari come lo Zingarelli o il De Mauro.
Riflettiamo ora proprio sulla parola in sé: appare a tutti gli effetti un termine che trasmette serietà, quasi un tecnicismo, una parola raffinata che non mette in soggezione.
Una parola di bell’aspetto, che però maschera una precisa ideologia di esclusione.
Ed è proprio questa sua apparente neutralità a renderla efficace: nasconde un intento politico sotto una veste rassicurante.
Perché se oggi nessun partito moderno oserebbe parlare esplicitamente di “deportazioni di massa”, ecco pronta un’alternativa più sofisticata: remigrazione.
Un eufemismo da manuale, che nasconde con efficacia le vere intenzioni di chi ormai ne ha fatto uno slogan.
La leggiamo sui giornali, sui manifesti elettorali, sugli striscioni durante le manifestazioni, e da poco anche nelle aule parlamentari italiane.
https://rsi.cue.rsi.ch/info/mondo/%E2%80%9CS%C3%AC-il-movimento-identitario-%C3%A8-di-ultradestra%E2%80%9D--2859395.html
È un tipico caso di rebranding semantico: si cambiano le parole per rendere accettabili concetti e idee che sarebbero inammissibili. È la logica dell’eufemismo politico, dove termini come “identità”, “sicurezza”, “tradizione” vengono usati come scudi retorici per coprire politiche di esclusione sistemica. “Remigrazione” è forse l’esempio più emblematico: suona tecnica, persino razionale, ma prepara il terreno a misure coercitive e disumanizzanti.
È fondamentale ricordare che le parole non sono mai vuote: sono contenitori di senso, strumenti di potere, e possono costruire (o distruggere) intere visioni del mondo. Quando una parola inizia a risuonare prepotentemente nel dibattito pubblico, occorre fermarsi, riflettere e chiedersi che cosa porti con sé.
Soprattutto se quel significato è così pericolosamente familiare.
La retorica del nemico esterno, dell’“uomo nero” come minaccia, dell’“invasore” da respingere, non è certo nuova. È antica quanto la politica in sé. Ma è sempre efficace. E chi oggi alimenta queste paure sa benissimo cosa sta facendo: manipola l’immaginario collettivo, stimola ansie profonde e crea consenso facendo leva sull’odio.

Remigrazione: le origini e le implicazioni
SEIDISERA 08.05.2024, 18:24
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Quindi, se la retorica non è nuova, lo è ancora meno il suo esito. La storia ci ha già mostrato dove può arrivare questa deriva.
E spesso tutto è cominciato proprio da una parola.
Come remigrazione.