Editoriale

Il lavoro brucia

Clima, lavoro, sfruttamento: il riscaldamento globale non è solo una crisi ambientale. È una crisi morale

  • Oggi, 07:00
  • 2 ore fa
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Di: Mat Cavadini 

Il lavoro sta bruciando. Non in senso metaforico, ma letterale. Le temperature salgono, le stagioni si accorciano, gli incendi divorano intere regioni, e nel frattempo milioni di lavoratori continuano a raccogliere uva sotto il fumo tossico, a servire pasti in cucine roventi, a caricare bagagli su piste d’atterraggio che sembrano deserti. Il cambiamento climatico non è solo una minaccia ambientale: è una macchina di sfruttamento che sta accelerando, silenziosa e letale.

Secondo il rapporto dell’Ufficio federale dell’ambiente, le temperature medie in Svizzera sono aumentate di oltre 2°C rispetto all’era preindustriale — il doppio della media globale. E questo ha conseguenze dirette sul lavoro. Il caldo estremo non è più un’eccezione: è una condizione strutturale. Eppure, le protezioni per i lavoratori restano minime, frammentarie, spesso sospese proprio nei momenti di emergenza.

Nel settore agricolo svizzero, ad esempio, si continua a lavorare anche durante le ondate di calore, con impatti sulla salute che vanno dall’esaurimento fisico all’esposizione prolungata a pesticidi e polveri sottili. In alcuni settori industriali molti lavoratori — spesso stagionali— operano in condizioni precarie, con scarse tutele e nessuna garanzia in caso di disastro ambientale.

Ma il problema è globale. In California, i braccianti vengono prelevati dai rifugi durante gli incendi per essere riportati nei campi. In Arizona, gli addetti ai bagagli lavorano su piste d’atterraggio che superano i 45°C. In Europa, il numero di giornate lavorative perse per stress termico è in crescita esponenziale. In Italia, uno studio INAIL-CNR ha stimato oltre 4.000 infortuni annui legati al caldo eccessivo. Eppure, il dibattito resta bloccato su un piano moralistico: si parla di “doveri”, di “sacrifici”, di “resilienza”.

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Il paradosso è evidente: i settori più essenziali — agricoltura, trasporti, servizi — sono anche quelli più vulnerabili. E il capitalismo, nella sua forma attuale, sembra incapace di proteggerli. Anzi, li consuma. Li espone. Li normalizza. Il lavoro diventa una forma di conscrizione, una coercizione mascherata da contratto.

Serve un cambio di paradigma: bisogna riconoscere che il clima sta ridefinendo il concetto stesso di sfruttamento. Serve una politica che leghi la sicurezza dei lavoratori alla riduzione obbligatoria delle emissioni. Serve un’economia che non metta il profitto davanti alla dignità. Perché se non cambiamo rotta, non saranno solo i lavoratori a perire. Sarà il sistema stesso a implodere.

In Svizzera, il National Centre for Climate Services ha già avviato progetti di adattamento per i comuni e i cantoni. Ma finché non si metterà al centro la condizione umana del lavoro, ogni piano resterà parziale. Perché il clima non è solo una questione ambientale. È una questione di giustizia.

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