Parlare di “diritto della guerra” è come cercare di dare forma giuridica all’eccezione, di normare l’assenza della norma. È un ossimoro che rischia di legittimare la violenza come strumento ordinario di risoluzione dei conflitti. Norberto Bobbio lo aveva intuito con lucidità: il vero progresso del diritto non consiste nel perfezionare le regole della guerra, ma nel costruire le condizioni della pace. Ogni tentativo di codificare la guerra, ammoniva, è una sconfitta della ragione giuridica, perché significa accettare che la barbarie possa essere regolata, anziché prevenuta. Il diritto internazionale, nato per garantire la pace e proteggere i più vulnerabili, mostra oggi crepe profonde.
«La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi», scriveva Clausewitz. Ma oggi, in un mondo che si proclama giuridicamente regolato, quella frase suona come una condanna. Perché se la guerra è ancora uno strumento politico, allora il diritto ha fallito. Eppure, continuiamo a parlare di “diritto della guerra”, come se la violenza potesse essere incasellata, normata, persino giustificata. È un equivoco pericoloso, che rischia di legittimare l’uso della forza come metodo ordinario di risoluzione dei conflitti, anziché come estrema ratio da scongiurare.
Il diritto internazionale, nato per garantire la pace e proteggere i più vulnerabili, mostra oggi crepe profonde. Le Convenzioni di Ginevra, la Carta delle Nazioni Unite, i tribunali penali internazionali: tutto questo impianto giuridico sembra impotente di fronte alla brutalità dei fatti. In Ucraina, in Palestina, in Sudan, le violazioni sono sistematiche, eppure le sanzioni sono lente, le condanne rare, le vittime abbandonate. Il diritto, che dovrebbe essere uno scudo, diventa spesso un alibi: si invoca per giustificare interventi armati, si piega alle ragioni geopolitiche, si svuota di senso quando non è accompagnato da volontà politica.
Parlare di “diritto della guerra” significa accettare che la guerra abbia una sua legittimità. Ma la guerra non è un contratto tra pari: è sempre una rottura, una sospensione della norma, una regressione. Anche quando è dichiarata “giusta”, anche quando è combattuta “per difesa”, porta con sé distruzione, morte, traumi. E il linguaggio giuridico, con le sue formule e le sue eccezioni, rischia di anestetizzare questa realtà. Si parla di “danni collaterali”, di “proporzionalità”, di “regole d’ingaggio”, come se la guerra fosse un gioco a somma zero, e non una tragedia umana.
Il problema non è il diritto in sé, ma la sua applicazione selettiva. Alcuni Stati possono violarlo impunemente, altri vengono puniti con durezza. Alcuni crimini vengono perseguiti, altri ignorati. Il diritto internazionale, così com’è, riflette gli squilibri di potere più che i principi di giustizia. E questo mina la sua credibilità, alimenta il cinismo, rafforza l’idea che la forza sia l’unico linguaggio efficace.

Morire di fame
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Eppure, rinunciare al diritto sarebbe un errore fatale. Serve più che mai, ma deve essere ripensato. Deve tornare a essere uno strumento di pace, non di guerra. Deve proteggere le vittime, non giustificare i carnefici. Deve essere universale, non geopolitico. Per farlo, occorre una rivoluzione culturale: smettere di considerare la guerra come inevitabile, e iniziare a costruire una pace attiva, fatta di diplomazia, ascolto, cooperazione.
La pace non è l’assenza di guerra, ma la presenza di giustizia. E il diritto, se vuole essere davvero tale, deve stare dalla parte di chi la invoca, non di chi la infrange. Solo così potremo uscire dall’equivoco, e restituire alla legge il suo significato più alto: quello di proteggere la vita, non di regolare la morte.
Il commento di Reto Ceschi
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