Scrivere per sopravvivere

Atef Abu Saif e la memoria come resistenza a Gaza

Dalla Striscia ai festival letterari europei, la voce dello scrittore palestinese si fa testimonianza di un popolo senza futuro, ma con un passato da custodire. Tra denuncia politica e impegno culturale

  • Oggi, 10:30
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Atef Abu Saif

Di: Laser/EBo 

«Quando guardano al futuro, non ne vedono alcuno. Quindi cosa fanno? Raccontano storie sul loro passato, perché lo usano come un ombrello, come l’ombra per ripararsi dal sole».

Così Atef Abu Saif, scrittore, docente e già Ministro della Cultura palestinese, descrive la condizione esistenziale del suo popolo. Nato nel campo profughi di Jabalya nel 1973, ha vissuto la guerra, la prigionia, la censura. Ma ha anche studiato a Bir Zeit, in Inghilterra e in Italia, diventando una delle voci più autorevoli della letteratura araba contemporanea.

Il suo romanzo Vita appesa e il suo Diario di un genocidio. 60 giorni sotto le bombe a Gaza sono opere che non solo raccontano, ma documentano. Finalista al Premio Internazionale della Letteratura Araba, Abu Saif è anche editorialista per testate palestinesi e internazionali. Le sue posizioni critiche verso Hamas gli sono costate minacce e incarcerazioni, ma non ha mai smesso di scrivere.

«Quando ho iniziato a scrivere e ho guardato le persone intorno a me nel campo profughi, ho pensato che tutte le loro storie dovevano essere raccontate e che loro avevano bisogno di me. Hanno bisogno che io le scriva», racconta. E lo fa con una prosa che intreccia memoria personale e collettiva, come nel racconto del quartiere di Al Nada, raso al suolo: «Conosco ogni edificio e chi vive in ciascuna di queste case. So chi è sposato, con chi e quanti figli hanno. Conosco i loro litigi, come conosco quelli della mia famiglia».

25:04

Voci dalla striscia

Laser 29.09.2025, 09:00

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  • Alessandro Bertellotti

La memoria, per Abu Saif, è un atto politico. Non solo contro l’oblio, ma contro la distruzione sistematica della cultura palestinese.

«I ricordi sono una componente essenziale della vita dei palestinesi - spiega - perché i palestinesi vivono nel passato: la loro situazione attuale è stata determinata proprio da questo passato.
Se sei cresciuto in un campo profughi a Gaza e ti guardi intorno, capisci che non puoi uscire da Gaza: non c’è un aeroporto, né un porto. Il porto marittimo è come un bel dipinto. È come se guardassi un bel quadro, ma non puoi attraversarlo, e non puoi viaggiare.
Non sai nulla del mondo al di fuori di Gaza, quindi non c’è futuro. E allora cosa fai? Torni al passato: nel passato hai la storia di tua madre e tua nonna, di Jaffa, di Haifa, di Accra, dei villaggi prima della Nakba, dove loro erano solite viaggiare.

Mia nonna mi raccontava di come andava al Cairo, o di come andava a trovare la sua amica a Gerusalemme, con un viaggio in treno di un’ora. La prima volta che io sono andato a Gerusalemme è stato quando avevo una ventina d’anni.
Mio fratello Muhammad ha 42 anni e non è mai uscito da Gaza in vita sua. Quindi cosa fa? Pensa al passato. Il motivo per cui le persone vivono nel passato non è perché vogliono staccarsi dalla situazione attuale. È perché oggi il presente e il futuro sono irrilevanti per loro, non soddisfano i loro sogni. La maggior parte della popolazione di Gaza è composta da rifugiati, e nessuno chiede loro: perché ti piace vivere nel passato? La risposta è: perché vivo in un campo profughi, non ho pace, non ho un posto dove stabilirmi definitivamente. Non posso dare il mio contributo per costruire uno stato. Pensando al passato, almeno posso non dimenticare. Posso farcela così.

Per me, come scrittore, sono cresciuto in questo luogo della memoria. E credetemi, quando dormo nella nostra piccola casa, nel campo - è uno spazio di una cinquantina di metri, non di più, la casa e tutte le case come la mia.... dormi e senti i tuoi vicini parlare del loro passato. Ricordo ad esempio questo mio vicino, Abu Darwish, che era solito sedersi dietro la finestra con i suoi amici e raccontare storie sulla sua giovinezza a Jaffa. Raccontava di quando era un pescatore... Ma era un bugiardo, senza dubbio: molte delle storie che raccontava penso che fossero bugie: sembravano le storie di Alì Babà. Raccontava di come viaggiava, e pescava in mare, e bla bla bla... Le mie nonne, i miei zii e tutti gli altri parenti raccontano storie sulle persone nel campo, perché la vita che conducono non è all’altezza delle loro aspettative.

Il romanzo riprende l’atmosfera del luogo, il luogo influisce sulla tecnica. E anche in guerra. Ricordo che quando eravamo seduti nelle tende durante la guerra, quello che facevamo era parlare del passato perché non avevamo un futuro di cui parlare e non avevamo un presente. A cosa corrisponde l’oggi? Non vogliamo parlare dell’essere uccisi, quindi parliamo delle cose belle. I pochi giorni belli che abbiamo avuto a Gaza».

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Alessandro Bertellotti: Qual è il ruolo dello scrittore, in questa situazione? Sente la responsabilità di dare voce alla sua gente?

Atef Abu Saif: Devo dire che sono fortunato. Fortunato per aver ricevuto una buona istruzione. Mio padre avrebbe dovuto frequentare il liceo l’anno della Nakba, il 1967: così perse l’opportunità di frequentare l’università.
Il suo sogno era quello di mandarmi nella migliore università possibile, quindi ha lavorato molto, molto, molto duramente come operaio per pagarmi gli studi. Voleva addirittura mandarmi in Germania, ma poi non sono riuscito a ottenere il permesso israeliano per partire. Allora mi ha mandato in Palestina, a Bir Zeit. All’epoca, all’inizio degli anni ‘90, studiavolì. La maggior parte dell’élite politica e culturale palestinese viene da Bir Zeit: quando facevo parte del governo, dei 22 ministri, 17 erano laureati a Bir Zeit. E questo vale per ogni governo, anche quello attuale, se ci fate caso. Quindi, sono stato fortunato ad avere ricevuto questa istruzione.

E ho sempre voluto diventare uno scrittore, anche se non sapevo cosa fosse uno scrittore. Quando ero bambino, a casa nostra non c’era vita. Non avevamo nulla. Sono cresciuto senza sapere cosa fosse una biblioteca. Ricordo la prima volta che ho visto una biblioteca: ero all’Università, avevo 18 anni.

Sono arrivato lì e mi sono guardato intorno. Era una biblioteca enorme con 100.000 libri. Ho dormito in biblioteca per due notti, mi ci hanno chiuso dentro, la biblioteca, perché non riuscivo a credere che avessimo tutti quei libri. Prendevo un libro, mi mettevo a leggere... e mi sono dimenticato che a un certo punto la biblioteca chiudeva. Quindi hanno chiuso la porta e se ne sono andati, ed è successo lo stesso il giorno dopo: sono andato in mensa, poi a lezione, poi di nuovo tra i libri. Quindi mi sono detto: devo stare attento, perché non posso dormire per terra più di quanto non abbia già fatto.

Mio padre aveva 50 libri, ma per me sono più preziosi della Biblioteca del Congresso americano. 50 libri da cui ho imparato la lingua. La maggior parte di essi appartiene alla letteratura classica araba, come Le mille e una notte, o la Sira, la biografia di Maometto, utilizza un arabo molto forte e molto metaforico... oppure altri capolavori della letteratura.

Mio padre li nascondeva in un armadietto, un piccolo armadietto vicino al suo letto. E per lui, erano il suo bene più prezioso. Erano il suo tesoro. Li avrò letti cento volte, o forse di più, non ne sono sicuro. Li leggevo ogni anno... Quello che voglio dire è che, se acquisisco tutta questa conoscenza, oltre ad avere un talento, ho anche un compito da svolgere: come se scrivere fosse una responsabilità, una responsabilità nei confronti delle persone.

Ad esempio, ero affascinato da mia nonna Ayesha, che aveva studiato a Jaffa, perché proveniva da una famiglia ricca. Era una grande narratrice e penso che se avesse scritto romanzi, sarebbe stata più importante di Dickens, Calvino o Nagib Mahfuz, sarebbe stata una grande autrice... Raccontava storie. Il mio sogno era scrivere la storia della sua vita, quindi la ascoltavo. Era cieca, perché aveva perso la vista durante la guerra nel 1948.

Stavo lì seduto e scrivevo quello che diceva, e il mio sogno era quello di scrivere un romanzo su di lei, anche se finora non ce l’ho fatta. Penso che è stato a quel punto che ho sentito la responsabilità di voler trasmettere il suo dolore, la sua sofferenza e anche la sua bellissima vita: quando parlava di quanto fosse bella da giovane, eccetera. Mi sono sentito responsabile di mantenere viva la sua storia.

Ma poi, quando ho iniziato a scrivere e ho guardato le persone intorno a me nel campo profughi, ho pensato che tutte le loro storie dovevano essere raccontate, e che loro hanno bisogno di me. Hanno bisogno che io le scriva.
Ero nella tenda a Rafah e le persone che mi riconoscevano come scrittore venivano da me e mi raccontavano le loro storie e mi dicevano: “Scrivi di noi”.

Ricordo questa signora, era una giovane madre. È venuta da me nella tenda e mi ha detto: “Dottore, venga a vedere cosa sto facendo”. Allora l’ho seguita in questa tenda orribile, a Rafah, la città delle tende in un deserto pieno di sabbia. Lì mi ha mostrato che stava insegnando al suo bambino l’alfabeto: A, B, C... Prendeva il dito del bambino e gli diceva: “Ok, fai così”, e lui scriveva sulla sabbia. E mi ha detto: “Racconta questo, racconta di me che insegno”. Le persone, le vittime, vogliono che si racconti la loro storia. Vogliono che io sia qui.

Penso di essere fortunato ad avere questa capacità di raccontare, perché ho potuto studiare in Inghilterra e in Italia, anche se magari ci sono molte persone più talentuose di me, che sarebbero autori migliori di me, ma ma io ho avuto la fortuna di avere questo talento, questa capacità e queste relazioni. Quindi penso che sia una sorta di dovere, un giuramento: noi autori siamo messaggeri.

21:03

L'inferno di Gaza

Falò 15.04.2025, 20:45

Che ricordo ha del 7 ottobre?

Quando è scoppiata la guerra, stavo nuotando in spiaggia. Ero con mio figlio, che ora ha 18 anni, mio fratello e mio cognato. Ricordo che negli ultimi cinque anni non avevo mai nuotato in spiaggia perché ero ministro di un ufficio pubblico. Così, quel giorno ho detto: “Ehi, forza ragazzi, andiamo in spiaggia”. Ero da mia sorella, lei vive molto vicino alla spiaggia. Quindi abbiamo dormito lì. Abbiamo fatto un barbecue la sera: molto piacevole, lei ha anche dell’uva e dei fichi in giardino. In ottobre l’uva diventa molto, molto succosa, in quel periodo si produce il vino, quindi abbiamo raccolto gli ultimi grappoli e ci siamo goduti il momento.

Siamo rimasti svegli fino all’una di notte. Poi alle cinque del mattino siamo andati in spiaggia, che è a solo mezzo chilometro di distanza. Ho guidato la mia jeep con mio fratello, e abbiamo nuotato. Poi alle 6:30, tutto intorno a noi è esploso.

Ricordo la mia prima impressione. Ho pensato: “E’ un’altra escalation”. Perché, sapete, a Gaza viviamo in guerra. Quindi per noi i razzi sono qualcosa di normale. E se vedi gli aerei, è normale, sai cosa succederà dopo. Allora ho detto a mio cognato Ismail: “Andiamocene, la situazione è pesante”. Lui ha detto: “Ma no dai, stanno giocando”. Parlava di Hamas e Israele. “Stanno giocando insieme, non preoccuparti”. Ho ribadito: “Rischiamo di morire”. Lui ha risposto: “No, non preoccuparti”.

Poi l’ho lasciato sulla spiaggia e lui è rimasto a nuotare. E mia sorella mi ha rimproverato: “Hai lasciato mio marito agli squali perché lo mangiassero”. Poi mi sono rimesso alla guida, e ricordo che in quel momento è passato un poliziotto di Hamas che mi conosceva, e mi ha chiesto se sapevo cosa stesse succedendo. Ho risposto: “No, agente, pensavo che lo sapesse lei”.

 “Cosa ne pensa, dottore?” mi fa. Me lo ha chiesto perché sono anche un analista politico. Prima di diventare ministro, ero professore di scienze politiche. Ha detto: “Pensa che Israele abbia ucciso uno dei nostri uomini fuori Gaza?” .Questa è stata la prima voce che circolava a Gaza in quel momento: Israele aveva ucciso un leader di Hamas fuori dalla Striscia, e Hamas stava reagendo.

A quel punto sono andato al centro stampa, che poi è stato distrutto, e lì c’eravamo io, Bilal e altri cinque o sei bravi giornalisti: non credevamo a quello che vedevamo sullo schermo, in televisione - che Hamas stesse invadendo e, tutto il resto. Naturalmente, già a quel punto, ho detto che era un grave errore prendere ostaggi civili perché la nostra strategia nazionale non lo permette: l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non lo ha mai fatto. Quando ho visto le immagini, ho detto loro che sarebbe stata una catastrofe, perché nessuno starà mai dalla vostra parte, se prendete in ostaggio anziani, donne e bambini.

Purtroppo, come sapete, il 7 ottobre non giustifica ciò che fa Israele, perché il 6 ottobre Israele ha ucciso tre pescatori nel mare di Gaza. Il 5 ottobre hanno colpito altri quattro pescatori. E così ogni giorno uccidono la Palestina. Quello che voglio dire è che questa guerra, fin dal primo giorno, è destinata a durare, che l’obiettivo principale di Israele è eliminare Gaza, e stanno cercando di farlo.

Lei parla di genocidio, ma di un genocidio che non è solo uccidere le persone, è anche uccidere la cultura.

C’è un genocidio legale, che rientra nella definizione della legge: non è uccidere tutti, ma l’intenzione di farlo. Per attuare questa intenzione , si manipolano molte altre cose come le sementi, come il cibo. Quando non lasci che le persone mangino, cosa significa questo? Che vuoi che muoiano. Di fame o di sete, in ogni caso che muoiano.

Ma c’è effettivamente anche un genocidio culturale. Israele cerca di eliminare ogni singolo segno della cultura palestinese. Lasciamo stare quanti autori sono stati uccisi e quanti giornalisti sono stati uccisi, in totale saranno 500... e più spesso parliamo dei giornalisti, ma ci siamo dimenticati degli scrittori.

Il più grande poeta di Gaza è ancora sepolto sotto le macerie, dall’8 dicembre 2023: due anni sotto le macerie. E noi lo insegniamo a scuola e all’università, è un autore molto famoso, Saleem Al-Naffar. Dobbiamo continuare a tradurlo, lavorare anche per lui. Quasi non ci credi, al motivo per cui l’hanno ucciso... a scuola tutti abbiamo imparato la sua poesia su Jaffa. I nostri figli crescono a scuola con i suoi ricordi, i ricordi di sua madre a Jaffa... Si intitola “La mia casa”, è una poesia molto famosa.
Comunque, abbiamo altri 300 autori e artisti uccisi. Ma nessuno parla di loro, tutti parlano dei giornalisti. Perché i giornalisti fanno comunque notizia.

Tornando al genocidio culturale: Israele ha cancellato i musei. 195 case antiche sono state deliberatamente distrutte, e alcune di esse avevano compreso l’hammam più antico non solo di Gaza ma di tutto il Medio Oriente, l’unico sopravvissuto prima dell’epoca ottomana. Hanno distrutto 195 edifici, nove musei, siti culturali, siti archeologici.

Vuoi attaccare Hamas? Perché allora attacchi la tomba del bisnonno del profeta Maometto? Perché devi prendere la sua tomba?Perché attacchi la chiesa cristiano-ortodossa, in cui sono stati uccisi 20 cristiani palestinesi, tra cui un fotografo di Gaza? Avevamo il più antico archivio fotografico della Palestina, e ora non abbiamo più nulla. Non è rimasto un solo dipinto a Gaza.

Hanno distrutto l’archivio, un vecchio edificio del XVIII secolo, dove si trovavano tutti i documenti del comune di Gaza. Le riunioni, i verbali del comune, i documenti economici, culturali. Quindi la memoria della città è stata cancellata. La memoria culturale, economica, politica.

Lei è stato ministro dell’autorità nazionale palestinese, con il partito al-Fatḥ. Ora la voce di quella parte sembra afona, addirittura dimenticata.

Non voglio parlare troppo di politica ora, ma dirò una cosa. Come si può risolvere questo problema?
O combattiamo o facciamo pace. C’è un’altra soluzione? Naturalmente, c’è un principio, e cioè che bisogna porre fine all’occupazione, prima.

Quindi, come fare la pace?
O viviamo insieme in un unico Stato o viviamo separati. A noi palestinesi, non importa. Chiunque può parlare con Israele e noi siamo d’accordo.

25:05

La guerra infinita

Falò 01.10.2024, 21:00

Ma queste voci della Palestina sono ascoltate dai sostenitori di Hamas?

Il problema non è nemmeno Hamas. E intendiamoci, sono stato in una prigione di Hamas, hanno cercato di uccidermi, non sarò certo io a difenderli... Ma la storia è molto semplice: non vivono in uno Stato, non hanno mai vissuto in pace. Se metti qualcuno in gabbia, cosa ti aspetti che faccia? Cerca di rompere la gabbia.

I palestinesi non sanno cosa sia, la pace. Quando ci siamo incontrati, quando Arafat e Rabin hanno raggiunto gli accordi di Oslo, nel 1993, poi Arafat è venuto a Gaza... Lì la maggior parte della popolazione era contraria all’accordo di Oslo, me compreso. Non era un accordo giusto, perché l’80% della nostra patria veniva ceduto agli ebrei israeliani. Io ero di Fatah, facevo parte del movimento giovanile che era contrario... Ma quando Arafat è venuto a Gaza, siamo scesi in strada con i fiori. Ma poi cosa è successo a Rabin a Tel Aviv? Gli hanno sparato, in mezzo alla piazza. Questa è una differenza enorme: noi palestinesi siamo stati molto tolleranti, ad un certo punto Hamas ha perfino accettato la soluzione dei due Stati, quando era al governo nel 2006. L’hanno accettata e l’hanno firmata.

Ma il problema, ancora una volta, non sono i palestinesi. Ai palestinesi non è mai stata data la possibilità di avere una possibilità. Se sei palestinese, devi sempre dimostrare che sei buono, mentre questo non succede ai ministri dell’ultradestra israeliana, loro possono andare a Roma, a visitare il Colosseo con la moglie... Chiedi ad ogni palestinese se firmerebbe per la pace! Tutti i palestinesi amano la pace.

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