Storia

Gli angeli ribelli

I segni del Novecento

  • 9 settembre 2023, 07:22
  • 30 novembre 2023, 10:04
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Di: Romano Giuffrida 

“Se i nostri padri non fossero stati normativi non avremmo potuto giocare agli angeli ribelli”.

“Angeli ribelli”: è’ bella questa immagine usata da Lidia Ravera nel suo romanzo “Il terzo tempo” per disegnare la generazione che nel 1968 ha sognato l’utopia al potere. Si direbbe un affettuoso ossimoro visivo tra l’immagine eterea e giovane dell’iconografia angelica e quella dell’indocile sovversivo disobbediente.

maggio 68

Involontaria l’eco lontana alle reminiscenze religiose dei cherubini insubordinati e perciò destinati all’Inferno.

Il binomio scelto dall’Autrice sembra rimandare piuttosto al significato originario del greco antico per il quale àngelos indicava il messaggero e quindi l’accostamento potrebbe significare anche messaggeri ribelli o, usando il sinonimo, rivoluzionari.


A pensarci bene, forse nessun secolo prima del Novecento ha conosciuto tanti angeli ribelli capaci di imprimere collettivamente, proprio come messaggeri di culture “altre”, segni in grado di rivoluzionare modelli culturali che erano colonne portanti e normative della società. Non parliamo delle avanguardie artistiche che, per quanto rivoluzionarie, influenzarono quasi esclusivamente i propri ambiti di riferimento senza orientare la società nel suo insieme.

Il est interdit d'interdire

Molto prima del “Vietato vietare!” scritto sui muri della Sorbonne nel maggio ’68, lo stesso concetto era stato espresso da quelle donne che già dall’inizio del secolo avevano affermato un principio che non sarebbe stato più abbandonato nei decenni a venire: “Io sono mia!”.

A rivendicarlo furono le Flapper, giovani ragazze che nei “ruggenti” anni Venti dichiararono guerra totale a tutte le convenzioni che le costringevano nella rigida rappresentazione della femminilità codificata.


Essere flapper significava quindi essere tutto ciò che la morale comune condannava: rivendicare libertà sessuale, sentirsi libere di comportarsi “come i maschi” consumando alcol, fumando, guidando l’automobile, ascoltando jazz e il tutto adottando un look provocatorio caratterizzato da capelli corti a caschetto, gonne altrettanto corte nonché trucchi pesanti a contornare gli occhi. Chi non ha visto almeno una volta Betty Boop, emblematica icona delle flapper?

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Sbaglieremmo però se ritenessimo le flapper un esito effimero degli “anni ruggenti” che colorivano le pagine di Scott Fitzgerald. Al fondo dei loro comportamenti, infatti, c’era soprattutto la voglia di ribellarsi contro ogni tipo di ipocrisia culturale, morale e politica imposta dalle generazioni precedenti, le quali, nascondendosi dietro un bon ton di facciata, avevano creato una società di guerre, ingiustizie, discriminazioni razziali e sessuali.

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Un paio di decenni dopo, la Seconda Guerra mondiale non poté che moltiplicare questo desiderio di rivolta.

Ancora una volta furono i giovani, maschi e femmine, a vivere da angeli ribelli.

A partire infatti dalla fine degli anni ’40, nelle strade di New York come in quelle di San Francisco era apparsa una “strana” popolazione che viveva “sulla strada”.

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“Nomadi con il sacco sulle spalle (…) che si rifiutano di aderire alle generali richieste ch’essi consumino prodotti e perciò siano costretti a lavorare per ottenere il privilegio di consumare tutte quelle schifezze (…) come frigoriferi, apparecchi televisivi, macchine (…) tutti prigionieri di un sistema di: lavora, produci, consuma”. Li descriveva così Jack Kerouac, scrittore, icona di quella generazione per il suo romanzo “On the road”, ma soprattutto uno di questi nuovi messaggeri ribelli, passati alla storia come membri di quella che venne chiamata beat generation: “un mucchio di persone di tutte le diverse nazionalità – disse il poeta Amiri Baraka - giunta alla conclusione che la società fa schifo”.

All’origine del movimento l’incontro di universitari ventenni o poco più, disgustati dalla tradizione idealistica dei professori che ignoravano la crisi mondiale di valori, le ingiustizie sociali e l’alienazione psichica indotta dalla società del consumo.

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Kerouac, Allen Ginsberg, Diane di Prima e molti altri, non solo diedero vita a un fenomeno letterario tra i più significativi del secondo Novecento, ma divennero un punto di riferimento per moltissimi giovani che abbandonarono case e comodità per combattere il consumismo e la discriminazione in tutte le sue forme. L’influenza dei beat fu enorme e infatti negli anni Sessanta il loro pensiero sarà alla base del movimento hippy che lo propugnerà lungo le strade di tutto il mondo.

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Mentre negli States i beat per liberarsi dal sistema, con yoga, meditazione e droghe rispondevano al mandato: “Allargate le coscienze”, l’Europa, davanti ai milioni di morti della guerra appena terminata, faceva i conti con il crollo di ogni certezza. Su ciò rifletteva il pensiero esistenzialista che, contro l’inautenticità dei valori delle società occidentali, mise al centro l’uomo, la sua assoluta libertà e la conseguente responsabilità del proprio esistere nel mondo. Tra loro c’erano filosofi e scrittori come Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Simone De Beauvoir, Merleau-Ponty: insieme, da prospettive diverse, mossero una critica più che radicale al sistema e alla sua morale.

Negli anni, la miscela tra il pensiero beat e quello esistenzialista, fusione sintetizzabile nello slogan “Prendete i vostri desideri per la realtà”, sarà talmente esplosiva che basterà una scintilla per produrre la fiammata della rivolta globale della gioventù nel 1968.

Sessantotto: un periodo di utopie, lotte, progetti, ma, contrariamente al sogno, l’immaginazione non riuscì a prendere il potere anzi, negli anni successivi la realtà si incaricò di recidere duramente le ali agli angeli ribelli di quella stagione.

A quel punto, tra mode, edonismi e disimpegno che disegneranno la scenografia del film di fine secolo, resterà spazio solo per l’urlo: “No future!” del movimento Punk a fare da colonna sonora.

Un nuovo messaggio ribelle, non certo però rassicurante per il Duemila che era alle porte.

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