Lo si agita come una bandiera nei talk televisivi, nei consigli comunali, nei post indignati sui social. È il rifugio retorico di chi vuole chiudere la discussione prima ancora di aprirla. Ma dietro questa parola apparentemente rassicurante si nasconde spesso il contrario della lucidità: il senso comune, grezzo, viscerale, refrattario al dubbio e alla complessità. Il buon senso, quello autentico, non è un automatismo. È una conquista. E oggi, nel dibattito pubblico, è più assente che mai.
Il buon senso, in verità, è tutt’altro che banale. «Il buon senso è la cosa più condivisa al mondo, ma ciascuno crede di averne abbastanza», scriveva Cartesio. Per Manzoni, «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». Ecco il punto: il buon senso è riflessivo, prudente, capace di distinguere. Il senso comune, invece, è gregario, automatico, spesso reazionario. Confondere i due significa legittimare la pigrizia intellettuale e l’inerzia morale.
Oggi il buon senso viene brandito come clava ideologica. In Italia, lo si usa per giustificare misure securitarie, per ridicolizzare il linguaggio inclusivo, per bollare come “radical chic” ogni proposta che esca dai binari della consuetudine. In Svizzera, dove il consenso è costruito attraverso la democrazia diretta, il buon senso diventa lo slogan di chi vuole semplificare questioni complesse: immigrazione, ambiente, diritti civili. Ma semplificare non è pensare. Karl Popper docet: «Ogni soluzione semplice è sbagliata».
La filosofia, del resto, ha smascherato a più riprese le insidie del buon senso. Nietzsche lo considerava una forma di pigrizia mentale, un riflesso della volontà di non pensare davvero: «Il buon senso è la mediocrità elevata a sistema», scriveva con il suo consueto sarcasmo. Heidegger, dal canto suo, denunciava il dominio del “si dice”, del “si pensa”, del “si fa” — quella dimensione impersonale dell’esistenza che ci impedisce di essere autentici. Il buon senso, in questa prospettiva, non è altro che il pensiero impersonale che ci tiene al riparo dal rischio della verità. Anche Adorno e Horkheimer, nella Dialettica dell’illuminismo, mettevano in guardia contro la razionalità strumentale che si traveste da buon senso, ma che in realtà serve solo a perpetuare l’ordine esistente. In tutti questi pensatori, il buon senso non è celebrato: è interrogato, messo in crisi, smontato. Perché il pensiero, se vuole essere davvero tale, deve avere il coraggio di andare oltre ciò che appare ovvio. Deve disturbare, non rassicurare.
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Il buon senso è stato colonizzato dal populismo. È diventato il linguaggio dell’ovvio, del comodo, del rassicurante. Ma il pensiero critico non è rassicurante. È inquieto, scomodo, a volte impopolare. Eppure è proprio questo tipo di pensiero che ha fatto avanzare le società, che ha messo in discussione dogmi, che ha aperto spazi di libertà. Il buon senso, se non è accompagnato da conoscenza e da etica, è solo una maschera del conformismo.
Il problema non è il buon senso in sé, ma il suo abuso. Il suo svuotamento semantico. Il suo impiego come arma retorica. Perché il buon senso, se non è pensiero critico, è solo senso comune. E il senso comune, come ci ricorda Roland Barthes, è spesso il nemico della verità.
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