Bilancio Conferenza sui Cambiamenti Climatici

Il nodo irrisolto dei combustibili fossili

La COP30 di Belém ha mostrato un impasse sui fossili, divisioni geopolitiche, ma passi avanti su adattamento e rinnovabili. Una transizione troppo lenta rispetto all’urgenza climatica

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Di: Alphaville/Mat 

La COP30 di Belém si è trasformata in un’occasione mancata, quasi un paradosso: una conferenza ospitata nel cuore dell’Amazzonia, simbolo planetario della lotta al cambiamento climatico, incapace di produrre un accordo vincolante sull’abbandono dei combustibili fossili. È difficile non leggere questo esito come una resa della politica internazionale di fronte agli interessi economici di breve periodo. Mentre il pianeta brucia e gli scienziati avvertono che la finestra per agire si sta chiudendo, i governi continuano a tergiversare, prigionieri di calcoli geopolitici e pressioni industriali.

Le aspettative erano alte: dopo la svolta simbolica della COP28 di Dubai, con la prima menzione esplicita dei combustibili fossili in un documento finale, Belém avrebbe dovuto segnare il passaggio dalle parole ai fatti. Invece, il vertice si è arenato sulle resistenze di Arabia Saudita, Russia e India, che hanno bloccato qualsiasi riferimento a una roadmap vincolante. Dall’altra parte, circa 90 Paesi – tra cui Francia, Regno Unito e numerosi Stati africani – hanno sostenuto con forza la necessità di accelerare la transizione. Ma la frattura è rimasta insanabile.

Al microfono di Mattia Pelli in Alphaville, Valeria Zanini, analista in Diplomazia Climatica nel think tank ECCO, espone il nodo: «il problema grande sta nella decarbonizzazione… è che gas, petrolio e carbone servono a industrie diverse e quindi espongono i Paesi a problemi strategici diversi». Non si tratta di un dettaglio tecnico, ma di un nodo strutturale che rende la transizione un terreno di scontro tra economie e modelli di sviluppo.

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Delusione amazzonica

Alphaville 24.11.2025, 12:05

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Il mancato accordo segna un passo indietro rispetto alle ambizioni della COP28 e mette in luce il peso del contesto geopolitico. L’assenza degli Stati Uniti, che dal prossimo gennaio usciranno dall’Accordo di Parigi, ha indebolito il fronte dei Paesi favorevoli a obiettivi più ambiziosi. Eppure, Zanini invita a non leggere l’esito come un fallimento totale: «Io non lo leggerei come un fallimento del multilateralismo, lo leggerei come un momento di grande difficoltà ma che va inquadrato rispetto alle aspettative».

Non mancano, infatti, segnali positivi. La presidenza brasiliana ha lanciato una roadmap volontaria per l’uscita dalle fonti fossili, sostenuta da oltre 90 Paesi. Inoltre, è stato raggiunto un accordo per triplicare i finanziamenti destinati all’adattamento climatico nei Paesi più vulnerabili, con l’obiettivo di arrivare a 100 miliardi di dollari l’anno. Per Emanuele Bompan, giornalista ambientale, direttore della rivista Materia Rinnovabile, si tratta di «uno dei risultati tecnici più importanti e anche lungamente attesi».

Sul fronte scientifico, qualche progresso è stato registrato: «Dieci anni fa gli scienziati ci dicevano che le temperature medie globali a fine secolo andavano sparate oltre i 3,8 gradi. Adesso siamo ai 2,7», ricorda Bompan. Un miglioramento, ma ancora lontano dal target di 1,5°C fissato a Parigi. Le emissioni da combustibili fossili continuano a crescere, rendendo sempre più difficile centrare gli obiettivi. Eppure, le rinnovabili avanzano: «Lo scorso anno abbiamo installato la più alta capacità annuale rinnovabile nel mondo… e questo ha permesso di avere una diminuzione delle emissioni del settore elettrico», sottolinea Zanini.

Il nodo resta la velocità. L’Europa mostra progressi, con metà dell’elettricità già prodotta da fonti rinnovabili, ma a livello globale la strada è lunga. Servirà un allineamento forte tra politica, finanza e settore privato. Zanini lo ribadisce con chiarezza: «Credo che la creatività sia un atto di resistenza, un modo per non lasciarsi schiacciare dalle urgenze quotidiane». Una frase che, pur riferita al suo lavoro di analista, suona come un monito per la politica internazionale: serve immaginazione, coraggio e capacità di visione per uscire dall’impasse.

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