Nel cuore dell’America, tra le sequoie millenarie e le praterie che sembrano non finire mai, vive un’idea che ha plasmato l’identità di una nazione: la wilderness. Non è solo un paesaggio, ma un concetto, una visione del mondo. È la natura selvaggia, quella che resiste, che non si piega, che ci ricorda quanto siamo piccoli e quanto abbiamo bisogno di qualcosa di più grande di noi.
Marco Sioli, docente di storia nordamericana e autore del libro In difesa della natura selvaggia (Elèuthera), ci invita a riflettere sul significato profondo di questa parola: «Dobbiamo riprendere il termine. Andare a riflettere sui termini wild, selvaggio». La wilderness, nata nel pensiero europeo come evocazione delle foreste ancestrali, si è trasformata nel Nuovo Mondo in un simbolo di maestosità e resistenza: «In Nord America diventa una foresta con alberi millenari e che rimangono tali».
Il paese dei parchi selvaggi
Alphaville 25.08.2025, 11:30
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Ma la wilderness americana non è solo un santuario naturale. È uno spazio sociale, un crocevia di presenze e tensioni. Sioli, intervistato da Mattia Pelli nella rubrica Alphaville di Rete Due, lo descrive come un «middle ground» dove convivono nativi, ranger, senzatetto, turisti e memorie industriali. Yosemite, ad esempio, non è solo «la terra degli orsi grizzly», ma anche un luogo dove «gli homeless sopravvivono, vecchie miniere riaffiorano e i turisti accorrono numerosi». La wilderness, dunque, non è mai davvero vuota: è abitata, attraversata, contesa.
La sua protezione è diventata un modello globale. I parchi nazionali americani sono stati esportati come simboli di civiltà ecologica. «Difendere la natura è importantissimo», afferma Sioli, ma dietro l’idealizzazione si nasconde un conflitto antico: quello tra conservazione e sfruttamento.
Lo scontro tra John Muir e Gifford Pinchot ne è l’emblema. Muir, padre spirituale dei parchi nazionali, voleva preservare la natura per la sua bellezza intrinseca. Pinchot, invece, vedeva nelle foreste una risorsa da gestire e utilizzare. «Muir voleva un sistema di parchi nazionali», spiega Sioli, «Pinchot aveva un’idea improntata al conservazionismo: servivano le foreste anche per il legname». Questo dibattito non è mai finito. Oggi si ripresenta sotto nuove forme, tra green economy e estrattivismo mascherato.
La wilderness è fragile. E lo è ancora di più quando le proposte politiche l’abbandonano. Il taglio delle risorse ai parchi nazionali, promosso dall’amministrazione Trump, ha messo in crisi il lavoro dei ranger, «amanti della natura che vogliono promuovere la comprensione della natura ma anche la necessità di tutelarla». Non tutelare un parco da un incendio, dice Sioli, «è criminale».
Eppure, nonostante tutto, la wilderness resiste. Resiste nei racconti, nei film, nei sogni. «La forza di questi parchi sopravviverà», afferma Sioli, con fiducia. Perché la wilderness non è solo un luogo: è un’idea. Un’idea che ci interroga, ci sfida, ci ricorda che la natura non è un lusso, ma una necessità.
In Europa, il concetto di wilderness sta lentamente guadagnando terreno. «L’Unione Europea sta lavorando per delimitare sempre più numerosi parchi nazionali», osserva Sioli. Ma anche qui, come negli Stati Uniti, la tensione tra tutela e sviluppo è costante. La sfida non è solo ecologica: è culturale, politica, esistenziale.
I parchi non sono solo riserve di biodiversità. Sono laboratori di educazione ambientale, spazi di riconnessione, luoghi dove si può ancora sentire il silenzio. In un mondo che corre, che consuma, che dimentica, la wilderness ci obbliga a fermarci. A guardare. A capire.
John Muir lo aveva capito molto prima di noi: «La wilderness non è un lusso, ma una necessità dello spirito umano». E oggi, in piena crisi climatica, quelle parole suonano come un monito. Proteggere la natura selvaggia non significa solo salvare alberi e animali. Significa salvare la possibilità di essere umani in un mondo che rischia di smarrire se stesso.