Il suo ultimo saggio parte dal 7 ottobre: secondo lei, quel giorno è stato riconosciuto che Israele è uno Stato debole. Uno Stato vulnerabile. Perché?
Paragono l’attacco di Hamas contro Israele a un terremoto che scuote un edificio già traballante, che aveva già dei problemi alle fondamenta. Quindi, anche prima del 7 ottobre, c’erano problemi fondamentali in questo intero progetto chiamato Stato ebraico.
Probabilmente il più importante era il conflitto interno alla società ebraica israeliana, che era già molto intenso prima del 7 ottobre, soprattutto dopo le elezioni del novembre 2022, quando è stato eletto un governo di estrema destra. Quello a cui abbiamo assistito è stato un conflitto tra la società ebraica più laica e liberale, che chiamo Stato di Israele, e la parte più teocratica, religiosa, direi messianica, della società ebraica in Israele, che chiamo Stato di Giudea. Quindi una debolezza era già presente, nella mancanza di coesione sociale.
Ma c’erano altri problemi. Israele era già isolato agli occhi di molte società, se non dei governi, e anche agli occhi di molti giovani ebrei, anche prima del 7 ottobre. In tutto il mondo si era smesso di identificarsi con Israele.
Tutte queste questioni hanno subito un’accelerazione e un’escalation, e hanno anche messo in luce qualcosa di cui non ero consapevole prima del 7 ottobre: l’esercito israeliano è molto bravo nell’uso dell’aviazione, nel bombardare chiunque in qualsiasi parte del mondo. Ma quando deve combattere sul terreno, non riesce a sconfiggere un piccolo gruppo di guerriglieri come Hamas. Ed è stato completamente sconfitto dal gruppo guerrigliero Hezbollah nel 2000, in Libano. Un esercito che, se ricordo bene, ha bisogno di 1000 soldati e 100 veicoli blindati per catturare cinque adolescenti nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, è un esercito con un problema.
Tutti questi problemi c’erano già prima, ma sono stati portati a un livello diverso di urgenza per lo Stato di Israele, al punto che ho cominciato a pensare di stare assistendo all’inizio della fine di questo capitolo della storia della Palestina moderna.

Lei parla di crepe, e del crollo delle fondamenta di Israele... Cambia però anche il modo in cui Israele è percepita all’esterno.
Penso che ci sia un malinteso, in Europa. Molte persone fino al 7 ottobre erano più interessatei all’Ucraina che alla Palestina.
Quello che ha fatto Hamas è stato spostare l’interesse dell’Europa sulla Palestina. Molte persone non conoscono la storia che collega l’antisemitismo nel continente all’idea di costruire uno Stato ebraico in Palestina.
Innanzitutto, la gente non sa che in realtà l’antisemitismo è razzismo contro gli europei: quando ha avuto inizio, era razzismo europeo contro altri europei. Gli ebrei non erano persone provenienti dall’Asia, non provenivano dallo spazio. Erano europei: poeti europei, scienziati europei. Alcuni di loro erano ministri degli esteri europei. È incredibile, se ci pensate.
Comunque, per risolvere il problema dell’antisemitismo improvvisamente nasce questo movimento a cui tutti contribuiscono... Ebrei, cristiani, politici, giornalisti, intellettuali che dicono che forse gli ebrei non si adattano all’Europa e hanno bisogno di uno Stato proprio. Significa che l’ebraismo non è una religione. È un nazionalismo diverso, che dice che non si può essere ebrei svizzeri. O si è svizzeri o si è ebrei.
Si tratta di un’idea bizzarra, se ci penso come storico... non so cosa avrei fatto se fossi vissuto in quel periodo, ma dal mio punto di vista è un’idea folle. Perché la mia famiglia, una famiglia ebrea tedesca, non dovrebbe sentirsi tedesca? Cosa fanno che non è tedesco? Mio nonno ha prestato servizio nella prima guerra mondiale in Germania. Ha ricevuto una medaglia. Il mio prozio era sindaco di Legnìza.
E l’idea che, per risolvere il problema della mia famiglia, i palestinesi, che non hanno nulla a che fare con ciò che è successo alla mia famiglia in Germania, debbano rinunciare alla loro patria per costruire uno Stato ebraico europeo nel cuore del mondo arabo... Mah. Quindi, invece di risolvere l’antisemitismo dove si era verificato, in Europa, lo hanno risolto dove non si era verificato, in Palestina. I palestinesi hanno pagato un prezzo molto alto per secoli di razzismo e odio europei nei confronti della popolazione ebraica.
Questa è una prospettiva che porto nel libro, a cui non molte persone pensano, perché credono alla propaganda israeliana secondo cui il sionismo non ha nulla a che fare con l’antisemitismo. Si trattava dell’antico popolo ebraico che tornava a casa dopo 2000 anni di esilio.
Nessuno torna a casa dopo 2000 anni di esilio. È una sciocchezza. È una montatura. Ma ha funzionato molto bene perché tutti volevano vedere gli ebrei d’Europa e del mondo, non in Europa, non in America, ma in Palestina.
Penso che l’errore di tutti coloro che erano sinceramente o cinicamente coinvolti nella ricerca di una soluzione sia stato quello di andare al supermercato europeo delle idee e pensare: come risolve i suoi problemi l’Europa, abitualmente? Così hanno costruito uno Stato nazionale, è il modello westfaliano: ogni nazione in Europa dovrebbe avere il proprio Stato, poi si concordano i confini e le regole del gioco.
Come mai questo non si adatta non solo alla Palestina? Non credo che si adatti al Mediterraneo orientale. Ricordiamo come sono stati creati i paesi che oggi compongono il Mediterraneo orientale, quello che chiamiamo Levante. Non sono stati creati dai popoli stessi. Sono stati creati dalla Gran Bretagna e dalla Francia nell’accordo Sykes-Picot, durante la Prima guerra mondiale. Si è trattato dell’imposizione di un modello europeo su un’area che aveva una composizione diversa. Era un mosaico di identità diverse che vivevano molto meglio in un super-Stato piuttosto che in diversi Stati nazionali. E questo include anche la Palestina.
Non che io voglia romanticizzare, ad esempio, il passato di quando quando la Palestina era sotto il dominio ottomano. Non era tutto positivo, ovviamente non poteva esserlo. Ma gli Ottomani avevano capito il principio del vivere e lasciar vivere, che le comunità dovessero rispettare il modo di vivere delle altre. E concordavano su alcuni modi per sviluppare questo dialogo.
Il passato ci offre idee su come costruire il futuro, e sono molto stimolanti. Naturalmente, senza gli aspetti negativi che appartengono a un periodo che era solo l’inizio dell’era moderna... penso che lì ci sia un modello, quello di una coesistenza autentica. Certo, i miei connazionali, gli ebrei israeliani, troverebbero molto, molto difficile accettare di essere uguali a tutti gli altri gruppi del Mediterraneo. Questo è un grosso ostacolo, ne sono pienamente consapevole.
E allora partiamo dalla storia. Esiste una visione comune almeno di quella, o c’è divisione anche all’interno della comunità degli storici?
Ho fatto parte di un gruppo di venti storici, dieci israeliani e dieci palestinesi: insieme abbiamo pubblicato un libro intitolato Across the Wall, in cui abbiamo cercato di costruire una narrazione comune, una versione storica comune. Il modo in cui funzionava era quello di non aver paura di guardare alla realtà, che non è mai una realtà equilibrata. La maggior parte dei tentativi di scrivere una storia comune decidono che il modo migliore è dire che entrambe le parti sono ugualmente responsabili della violenza. Entrambe le parti sono uguali nel conflitto.
Ma noi siamo stati in grado di lavorare insieme perché abbiamo capito che non c’è equilibrio: una parte è il colonizzatore, l’altra è il colonizzato. Una parte è l’occupante, l’altro è l’occupato. Da una parte c’è chi compie la pulizia etnica, dall’altra ci sono le vittime della pulizia etnica.
Mi piace l’esempio del sistema educativo del Sudafrica post-apartheid. Il Paese ha molti problemi economici e politici, ma il sistema educativo è ottimo perché ha guardato alla storia e ha detto ai bianchi del Sudafrica: «Siamo disposti ad accettarvi nei libri di storia come una delle tribù del Sudafrica. Questo ci offre un modo per includervi nel Sudafrica del futuro».
In modo simile, non credo che sia un problema per i palestinesi accettare che gli ebrei siano un altro gruppo che ora esiste nel Levante... Ci sono gli yazidi, i maroniti, i drusi, i cristiani. Non è una cosa originale avere un gruppo che dice di essere un po’ diverso a causa della propria religione: io lo chiamo gruppo etnico-culturale.
Nel momento in cui questo diventa possibile, si può scrivere quella storia e spiegare insieme la colonizzazione e la pulizia etnica. Nel momento in cui una parte insiste nel dire che la sua mitologia è quella legittima, non c’è modo di costruire una narrazione comune.
Per esempio, la maggior parte degli storici israeliani vi dirà che la Palestina era una terra vuota. La Palestina non era vuota. Che il sionismo è solo un movimento nazionale. No, è anche un progetto colonialista. Se si ignorano questi fatti, non è possibile costruire una narrazione comune. Bisogna decolonizzare la mente, bisogna decolonizzare la narrazione. E allora forse si potrà anche decolonizzare il Paese.

Israele Stato vulnerabile
Laser 06.10.2025, 09:00
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Perché, secondo i suoi studi e la sua visione, Israele è una forma di colonialismo?
Ti dico come puoi capire facilmente questo discorso: in Nord America, in Australia, in Nuova Zelanda, in America Latina. È molto interessante l’idea che il sionismo non sia solo un classico caso di colonialismo, avanzata dagli studiosi palestinesi già nel 1965. In quell’anno l’Organizzazione per la liberazione della Palestina aveva un centro accademico a Beirut, che contava 40 studiosi palestinesi, i quali sostenevano già allora che la situazione dei palestinesi fosse simile a quella dei nativi negli Stati Uniti, in Canada, in Messico, in Argentina, Brasile, Australia e Nuova Zelanda. E dicevano che si trattava di una forma diversa di colonialismo.
Il colonialismo classico consiste nell’inviare il proprio popolo a costruire la colonia, e quando l’impero finisce, tornare a casa. Il colonialismo dei coloni è il movimento degli europei che non erano desiderati in Europa, che erano perseguitati in Europa per motivi religiosi, culturali, economici. E cercavano un posto dove costruire una nuova Europa al posto dell’Europa che non li voleva. E all’inizio erano aiutati dagli imperi.
Ma, come sappiamo, la maggior parte di questi coloni si ribellò all’impero. È così che ci furono la guerra d’indipendenza americana, la guerra d’indipendenza israeliana, le guerre boere in Sudafrica. Ma ciò che accomuna tutti questi progetti è che, per costruire l’Europa al posto dell’Europa, non volevano quella gente. E quelli a loro volta dovevano sbarazzarsi degli indigeni, come la popolazione nativa del Nord America. Lì è stato un genocidio, in Australia è stato un genocidio, in alcune parti dell’America centrale e latina... anche in Sud America è stato un genocidio.
I palestinesi sono stati fortunati fino al 2023, quando si è trattato solo - volendo parlare cinicamente - di una pulizia etnica e non di un genocidio. Ma la logica era la stessa: se vuoi costruire una nuova Europa al posto dell’Europa, e loro ti vogliono in un posto che non è l’Europa, si sceglie sempre un luogo dove qualcun altro vive già, e questi altri sono l’ostacolo principale alla costruzione di una nuova Europa.
Lo dimostro in questo breve libro, ma lo dimostro anche in tutti i miei lavori più estesi: i leader sionisti, da Theodor Herzl, il profeta del movimento, fino al ministro dell’ultradestra isrealiana Ben-Gvir oggi, hanno sempre detto che il nostro problema principale in Palestina sono i palestinesi e che dobbiamo sbarazzarci di loro, perché altrimenti non avremo uno Stato ebraico, democratico ed europeo.

Israele Stato vulnerabile
Laser 07.10.2025, 09:00
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Lei ha usato la parola genocidio. C’è un capitolo nel suo libro intitolato Come fermare il genocidio e perché è iniziato. Dunque, perché? E soprattutto, come?
Gaza è diventata un grande problema per Israele, perché credo che la maggior parte dei partiti politici israeliani pensasse di aver risolto in qualche modo il problema della Cisgiordania, visto che hanno un regime molto collaborativo dell’Autorità Palestinese a Ramallah: nessuno interferisce con l’espansione degli insediamenti ebraici. C’è la guerriglia, d’accordo, e c’è il terrorismo, ma può essere affrontato. Israele può farcela, a occuparsi della Cisgiordania. Ma Gaza era un problema.
Prima di tutto, la popolazione di Gaza non era disposta a seguire la strada dell’Autorità Palestinese. Hanno detto: no, noi resistiamo. Non importa se si trattava di Hamas, Fatah o della sinistra. Hanno detto: «Non siamo disposti a diventare un nuovo Bantustan», il territorio dove la popolazione nera del Sudafrica veniva confinata ai tempi dell’apartheid. In secondo luogo, la situazione geografica di Gaza è diversa da quella della Cisgiordania. Non ha un vero e proprio Paese arabo, accanto ad essa, quindi non è possibile ad esempio spingere la popolazione verso l’Egitto - che tra l’altro non permette che i palestinesi vengano accolti.
Poi c’è un altro fattore. Pochissimi ebrei sono andati a stabilirsi a Gaza: rispetto agli 800.000 ebrei che erano disposti a stabilirsi in Cisgiordania, solo 5.000 si sono stabiliti a Gaza. Quindi la soluzione usata per la Cisgiordania non ha funzionato per Gaza.
Quando Ariel Sharon è salito al potere nel 2001, ha detto: «Ho una soluzione. Togliamo i coloni, circonderemo la Striscia di Gaza con del filo spinato. La trasformeremo in una mega prigione. La controlleremo dall’esterno e tutto andrà bene».
Ma le persone nella prigione hanno risposto: no, non va bene. E hanno cominciato a costruire questi missili rudimentali, i missili Kassam. Ricevono aiuto dall’Iran, e iniziano a lanciare razzi su Israele. Quindi l’accordo di Sharon non funziona. Poi Netanyahu sale al potere nel 2009 e dice: «Ho un’idea migliore. Chiederò al Qatar di dare un sacco di soldi ad Hamas e comprerò il silenzio con il denaro». Quindi il Qatar, Abu Dhabi ed altri investono un sacco di soldi, ma Hamas ha un’ideologia che dice «Non siamo disposti a vivere in questa prigione, anche se ci date dei soldi. Abbiamo parenti in Cisgiordania, e mentre qui a Gaza ci date dei soldi, in Cisgiordania arrestate la nostra gente, la uccidete, la giustiziate. Ma siamo la stessa gente. Se pensate che siamo diversi, non funziona».
Credo che fino all’ottobre 2023, se aveste partecipato a una riunione di gabinetto del governo Netanyahu - non sto dicendo che sia un dato di fatto, è solo una mia ipotesi - Netanyahu avrebbe detto, «Tutto funziona bene a Gaza! I soldi stanno arrivando. Ogni tanto ci sono piccoli scontri, ma sono contenibili». Penso che fosse sinceramente contrario a ogni teoria del complotto, e che sia stato sinceramente sorpreso, nell’ottobre 2023. Netanyahu è tornato al potere nel 2022 con alleati molto particolari: ebrei sionisti messianici come Ben-Gvir e Smotrich, che hanno sempre detto, anche prima dell’ottobre 2023, che l’unica soluzione per Gaza è quella di spazzarla via. Il 7 ottobre ha dato loro la scusa, e Netanyahu va d’accordo con chiunque possa promettergli di rimanere al potere per fermare il genocidio.
Ora voglio dire una cosa importante: tutti dicono che la chiave sono gli Stati Uniti, ma io non sono d’accordo.
Avendo vissuto a lungo sia in Israele che in Inghilterra, posso dirvi che è l’Europa che può fermare il genocidio, domani stesso. Ma deve essere coraggiosa. Se l’Europa espellesse Israele dalle competizioni calcistiche, se l’Europa interrompesse l’accordo Horizon che l’UE ha con Israele, se la maggior parte dei paesi europei importanti imponesse sanzioni a Israele, il genocidio finirebbe domani. Il fatto che Israele ritenga che alle parole dell’Europa non seguano i fatti è qualcosa con cui può convivere. Non sto dicendo che questo porterebbe pace e riconciliazione, ma porrebbe fine all’attuale situazione.
Sapete, noi qui stiamo molto comodamente seduti, mentre questa mattina Israele ha lanciato un altro avvertimento: un grattacielo verrà bombardato. Probabilmente lo sta bombardando proprio ora.
Insomma, non so come lo prendano gli europei, il fatto che ora ogni due giorni un grattacielo di 15-16 piani, con centinaia di persone che vi abitano, venga bombardato, e che gli israeliani lo filmino per intimidire gli altri abitanti della città di Gaza affinché se ne vadano. Penso che questi siano metodi nazisti. Capisco che vogliano sconfiggere Hamas, ma... questo permette loro di attuare una politica così criminale?
Se ciò che Israele sta facendo oggi e ieri non è sufficiente per spingere il governo svizzero, il governo francese, il governo tedesco a dire: «Sapete una cosa? Non vogliamo relazioni diplomatiche con voi finché non la smetterete»... È incredibile. Ho letto un sondaggio secondo cui il 70% della popolazione europea è favorevole a imporre sanzioni a Israele. C’è un enorme divario tra i governi nazionali e la società civile.
Perché i governi non ascoltano i loro popoli?
In Europa, penso che abbiamo due problemi con le élite politiche europee.
Primo: Una certa generazione di politici di una generazione più anziana, che svolgono ancora un ruolo importante nella politica europea, pensa che un’azione così dura contro Israele sarebbe un’azione contro uno di noi. A loro piacciono gli israeliani. Considerano Israele parte dell’Europa occidentale: non solo dell’Europa, ma dell’Europa occidentale. Lo si può vedere nei legami economici, militari, culturali e così via... E penso che temano che questo possa aprire un vaso di Pandora sulla complicità dell’intera Europa, non solo a Gaza, ma durante tutti gli anni di oppressione dei palestinesi. Una cosa è sanzionare la Russia, o la Serbia, e sicuramente la Corea del Nord o l’Iran, ma uno di noi... è molto difficile.
In secondo luogo, la generazione più giovane di politici... penso che, in generale, non abbiamo giovani politici di alta qualità. Lo vedo con i miei studenti, ne discutiamo in modo molto approfondito. E abbiamo scoperto che molti giovani politici sono in politica perché è una buona carriera, non perché hanno una vocazione. In passato, potevate non essere d’accordo con qualcuno che era dalla parte opposta della vostra politica, ma lo rispettavate dicendo che credeva in qualcosa, era comunque un leader.
Le differenze tra i politici non sono molto grandi ora. Il loro modo di vedere le cose è molto simile. E si rifanno al modello americano, molto egocentrico. Intraprendere un’azione dura contro lo Stato ebraico può rovinare una carriera, e quindi non lo fanno.
Torniamo al punto di prima: come fermare il genocidio?
Nel momento in cui i politici europei capiranno che, dal punto di vista elettorale, non è vantaggioso sostenere Israele, allora assisteremo a un cambiamento nella politica. È l’unico linguaggio che capiscono.
Ero in Francia tra i due turni delle ultime elezioni, ed era molto chiaro alla sinistra che un forte sostegno ai palestinesi avrebbe galvanizzato i suoi elettori. E questo li ha aiutati, nel secondo turno delle elezioni, a unirsi. Perché la Palestina era una questione molto importante. Naturalmente, come sappiamo, non è stato sufficiente per tenerli uniti. Ma penso che questo sia molto importante.
Nel nuovo libro che ho appena terminato dico che rendere giustizia ai palestinesi significa rendere giustizia a molti altri gruppi e questioni nel mondo. Quindi, finché l’essenza stessa della politica non cambierà, nel mondo, non ci sarà alcun cambiamento in Palestina.
Ai nostri politici ad esempio non interessa molto il riscaldamento globale, non si preoccupano molto della povertà, hanno idee molto rigide sull’immigrazione e sulla prosperità economica. E tutto questo è collegato. Gaza è solo un sintomo di un problema più ampio, quello del divario tra la società e le élite politiche, che non riguarda solo la Palestina.
Lei ha parlato della mancanza di rispetto per i discorsi degli altri, per gli altri politici con visioni diverse, e ha detto che questo è il motivo per cui oggi assistiamo a una tale polarizzazione del dibattito.
Non credo che quando il governo ha una posizione e la società ne ha una diversa si tratti esattamente di polarizzazione. Per me la polarizzazione si ha quando nella società stessa ci sono due punti di vista contrastanti. Quando il governo ha una posizione e il popolo ne ha una diversa, questo dimostra che ciò che conta è il potere e non gli argomenti morali e ideologici.
Ho scritto un libro intitolato The idea of Israel, in cui ho analizzato come nel 2010 Netanyahu, appena salito al potere, abbia detto molto chiaramente che Israele ha pochissime possibilità di vincere una discussione morale. Come si può giustificare l’occupazione, la pulizia etnica e ora il genocidio? Ogni persona con un minimo di decenza non sosterrebbe l’occupazione, non sosterrebbe la colonizzazione, non sosterrebbe la pulizia etnica. Quindi ha detto qualcosa tipo: «Lasciamo perdere. Non possiamo convincere la gente che ciò che facciamo ai palestinesi è moralmente giusto. Allora cosa facciamo? Dobbiamo usare il potere e parlare con le élite affinché ci sostengano non per questioni morali, ma per interessi comuni».
E questa non è polarizzazione. Se le questioni morali non hanno nulla a che vedere con la politica, Israele vincerà. Se anche solo una minima parte delle questioni morali determinasse la nostra politica, allora la Palestina si troverebbe in una situazione migliore.
Non c’è una terza via. Quindi non lo vedo come una polarizzazione, la vedo come una competizione tra due concezioni di cosa sia la politica, l’essenza della politica, intendo.
Aggiungerò una cosa. Non mi sorprende che un danno collaterale grave, per così dire, causato dal genocidio di Gaza sia stato quello alla Corte internazionale di giustizia.
Oggi gli Stati Uniti d’America affermano che ogni giudice della Corte internazionale di giustizia e ogni giudice della Corte penale internazionale che si è pronunciato contro Israele è un criminale, che non potrà recarsi in America, e tutti i suoi beni saranno congelati in America. Ma queste due istituzioni, la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia, sono state istituite dagli Stati Uniti dopo la Sseconda guerra mondiale per garantire la giustizia universale!
Gaza ha dimostrato che, agli occhi di molti nell’élite occidentale, la giustizia universale deve essere a favore dell’Occidente. E questa è una vera crisi.
Come dice il mio amico Jeffrey Sachs, grande economista, se non siamo d’accordo sulla giustizia universale, non saremo in grado di collaborare come società globale su questioni che possono essere affrontate solo con la cooperazione globale, come il riscaldamento globale, la povertà globale, l’immigrazione, la circolazione delle persone... Tutto questo non può essere fatto da un solo governo, è necessaria la cooperazione internazionale. Lui è molto preoccupato, come economista. Dice che senza un sistema giudiziario universale non si può avere una cooperazione globale universale.
Gaza ha messo in luce che il diritto internazionale non è internazionale. Ma noi possiamo ancora salvarlo. In realtà, non abbiamo scelta: dobbiamo salvarlo. Altrimenti crollerebbe l’intero mondo globale, non solo Gaza e la Palestina.