Società

La paura del bianco

Trump sta intercettando e cavalcando le paure dell’America bianca, soprattutto quella operaia e rurale, che si sente marginalizzata e derubata

  • Ieri, 07:00
  • Ieri, 08:57
iStock-Schiavitù, Cotone, Pianta di cotone, Stile del XVIII secolo, Piantagione
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Di: Alphaville/Mat 

«La colpa e la paura del bianco»: così James Baldwin descriveva il cuore oscuro della società americana. Non si tratta solo di razzismo, ma di una dinamica più profonda e strutturale: la paura di dover riconoscere l’oppressione perpetrata, la colpa di aver costruito il proprio privilegio sullo sfruttamento altrui. È questa paura — ancestrale, razionalizzata, tramandata — che ha attraversato i secoli e che oggi riemerge con forza nell’America di Donald Trump.

Per comprendere questa deriva, bisogna tornare alle origini. L’identità americana si è formata attorno alla cultura WASP (White Anglo-Saxon Protestant), la classe dirigente composta dai coloni inglesi e olandesi che nel XVII secolo fondarono le istituzioni del Nuovo Mondo. Come ricorda lo scrittore Enrico Palandri (intervistato da Enrico Bianda e Cristiana Artoni in Alphaville), «i WASP sono anche quelli che faranno la rivoluzione, che scriveranno la Dichiarazione di Indipendenza». Ma dietro l’ideale di libertà si celava una contraddizione: la schiavitù.

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Le radici dell’odio razziale WASP 

Alphaville 01.10.2025, 12:00

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Anche le figure più illuminate, come John Locke, erano schiavisti. I primi presidenti americani possedevano schiavi. La tratta transatlantica, che collegava Africa, America e Inghilterra, non fu solo un sistema economico: fu il pilastro su cui si costruì la gerarchia razziale. Baldwin lo spiega con lucidità: lo sfruttamento economico crea una sottoclasse, e per giustificarlo lo si rende razziale. Il razzismo, dunque, non nasce da un odio spontaneo, ma da un bisogno di legittimare il dominio.

Questa razionalizzazione ha attraversato la storia americana, adattandosi ai cambiamenti sociali. Anche se la composizione etnica della classe dirigente si è diversificata, come osserva il giornalista Roberto Festa (nell’intervista di Enrico Bianda e Cristiana Artoni) «quello che non è tramontato è la cultura del privilegio, dell’esclusione razziale». Il privilegio si è fatto più sottile, ma non meno efficace: ha cambiato linguaggio, passando dalla segregazione alla meritocrazia, dalla discriminazione esplicita alla selezione algoritmica.

È in questo contesto che si inserisce il fenomeno Trump. Il suo successo non è un’anomalia, ma una conseguenza. Trump ha saputo intercettare le paure di una parte dell’America bianca, soprattutto quella operaia e rurale, che si sente esclusa, marginalizzata, tradita. «Risponde alle paure dei bianchi che pensano di non essere presi all’università perché ci sono i programmi che favoriscono le minoranze», spiega Festa.

Il messaggio trumpiano è semplice e potente: siete stati derubati. Dai migranti, dai cinesi, dagli intellettuali, dai progressisti. «Make America Great Again» diventa così un grido di rivalsa, un appello identitario, una promessa di restaurazione. Ma è anche una narrazione che sacralizza il denaro. «Se tu sei povero, sei in qualche modo colpevole della tua povertà», afferma Palandri, evidenziando l’etica protestante che lega successo economico a valore morale.

La figura di Trump, costruita attraverso la televisione e i media, incarna una versione caricaturale del sogno americano. «Il mito di Trump nasce con la televisione», ricorda Festa. È l’imprenditore vincente, il miliardario che ce l’ha fatta, il simbolo di un capitalismo che premia i forti e punisce i deboli. Ma dietro questa facciata si nasconde una deriva autoritaria. «Trump ha emesso una direttiva per perseguire chi diffonde messaggi antiamericani», denuncia Festa. Un attacco al dissenso che riecheggia i momenti più oscuri della storia americana.

L’America di Trump non è un incidente, ma il frutto di radici profonde. È l’evoluzione di una cultura che ha sempre cercato di giustificare il privilegio, razionalizzare l’ingiustizia, mascherare lo sfruttamento. Le parole di Baldwin ci ricordano che il razzismo è spesso la copertura di dinamiche economiche e psicologiche più profonde. Solo affrontando queste radici sarà possibile costruire un’America davvero inclusiva, capace di riconoscere la propria storia e di immaginare un futuro diverso.

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