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La voce e il giudizio: come cambia il giornalismo culturale nell’era digitale

Paolo Di Stefano e il giornalismo culturale tra etica, letteratura e trasformazioni digitali

  • Oggi, 17:00
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Paolo di Stefano

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Di: Laser/EB 

Il giornalismo culturale, oggi, è un campo attraversato da tensioni profonde: tra etica e mercato, tra ascolto e spettacolarizzazione, tra profondità e superficialità. Paolo Di Stefano, scrittore e giornalista di lungo corso, lo racconta con lucidità, forte di un’esperienza che lo ha visto per anni alla guida delle pagine culturali del Corriere della Sera. La sua riflessione parte da un principio semplice e radicale: «Stare ad ascoltare senza invadere il campo del tuo interlocutore, con discrezione, e poi cercare di riportare con uno stile che sia naturalmente tuo, ma capace di restituire la voce dell’altro».

Questa idea dell’ascolto come fondamento del mestiere giornalistico si intreccia con una visione rigorosa della scrittura, nutrita da una formazione filologica che Di Stefano rivendica con forza: «La filologia è disciplina e mentalità, è rigore nell’affrontare i testi e chiarezza nell’uso delle parole. In un mondo in cui la menzogna è diventata pratica diffusa, viva la filologia!».

La sua analisi della trasformazione del giornalismo culturale parte dalla “terza pagina”, invenzione italiana del primo Novecento, che ha codificato un certo modo di fare cultura. «Era una pagina strutturata, con elzeviro, spalla e taglio basso. Ma dagli anni ’90 in poi, la cultura ha cominciato a diversificarsi, aprendosi a linguaggi molteplici: cinema, televisione, teatro popolare, spettacolo». Questa apertura ha portato con sé nuove sfide, soprattutto nel rapporto tra cultura e intrattenimento, e nella convivenza tra cultura alta e cultura di consumo.

Il cambiamento più radicale, però, riguarda la critica. «Una volta il critico era una figura autorevole, che si assumeva la responsabilità di un giudizio di valore. Oggi questo aspetto è venuto meno. C’è molta più complicità con gli oggetti culturali». Di Stefano denuncia una crescente difficoltà nel mantenere l’indipendenza, soprattutto da quando i quotidiani hanno iniziato a distribuire libri allegati, stabilendo rapporti commerciali con le case editrici. «Come si fa a valutare obiettivamente un libro Einaudi se lo stesso giornale pubblica una sua collana?».

La commistione tra cultura e commercio è, per Di Stefano, una delle cause principali della crisi della critica. «Il recensore spesso viene scelto dagli uffici stampa, che lo trovano nella propria scuderia. È una pratica diffusa e difficile da arginare». Eppure, non tutto è perduto. I supplementi culturali, come La Lettura o le pagine del sabato del Foglio, offrono spazi preziosi per riflessioni profonde, esistenziali, filosofiche. «Sono miglioramenti importanti, che permettono di affrontare le grandi domande, non solo l’attualità».

La sua esperienza di scrittore si intreccia con quella giornalistica. In I pesci devono nuotare, ha raccontato una storia vera con uno stile sobrio, evitando il patetico e lo stereotipo. «È una questione di ascolto e di stile. Bisogna evitare la retorica banale e restituire la voce dell’altro». Anche il legame con le proprie origini, la Sicilia, diventa nutrimento per la scrittura: «Riflettere sul proprio passato ti mette in discussione e ti apre lo sguardo verso il mondo».

Di Stefano cita tra i suoi maestri Cesare Segre, filologo e intellettuale capace di parlare al lettore comune con chiarezza e rigore. «Segre sapeva adattare il suo sguardo accademico al pubblico del giornale, con lucidità straordinaria».

Guardando al futuro, Di Stefano non nasconde le sue preoccupazioni: «Temo che le cose peggioreranno, se non ci sarà una presa di responsabilità. Serve uno sguardo vivo, critico, onesto». Il giornalismo culturale, se ben compreso e narrato, resta uno spazio necessario.

25:51

Paolo Di Stefano, raccontare la cultura tra giornalismo e letteratura

Laser 03.09.2025, 09:00

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  • Lina Simoneschi-Finocchiaro

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