Avviso che in questo articolo parlo di morte e accenno anche a un suicidio: so che questo è un argomento delicato per molte persone, quindi, se non ve la sentite, fermatevi qui.
Mio marito è morto il 26 agosto 2021. Aveva 39 anni e mi sembrava immortale. Quel giorno la morte è entrata nella mia vita di prepotenza. Ma, stranamente e imprevedibilmente, non ne sono fuggita. Anzi, sto imparando a diventarne amica. Può sembrare una contraddizione: come si fa a far pace con la morte, quando ti ha tolto una delle persone più importanti della tua vita?
La morte di Federico mi ha obbligato a fare i conti con una delle mie più grandi paure. Prima di allora anch’io evitavo accuratamente l’argomento. Sono riuscita a schivarlo per vent’anni – da quando, adolescente, si è suicidata una mia compagna di classe, e un paio di mesi dopo è morto mio nonno. Non erano tempi in cui ti mandavano a fare psicoterapia, quelli, anzi. Al massimo ti mandavano in chiesa. E così è stato per me. Quindi ho soppresso e cercato di dimenticare, il più velocemente possibile.
Circa tre anni fa è morta Brisée, la mia amatissima gatta, e dopo poco più di un mese mio marito. Questa duplice morte mi ha sbattuto in faccia la mia totale impreparazione al riguardo, e mi sono resa conto di quanto la morte sia assente nella nostra società occidentale: non la vediamo più, l’abbiamo ospedalizzata, medicalizzata, invisibilizzata. Anche quella dei nostri animali domestici è nascosta. C’è sempre qualche filtro, qualche tramite. Così cerchiamo di esorcizzarne la paura: fingendo che non esista.
Abbiamo tolto la morte anche dal nostro vocabolario. Oggi ho parlato con la veterinaria: il mio gatto, il fratello di Brisée, ha un’ostruzione all’intestino e ho dovuto decidere in poche ore se operarlo oppure no. In quindici minuti di telefonata, non ha mai usato la parola “morte”. Ha detto “perdita”, “scomparsa”, “fine”, “eutanasia”. L’ho detta io: «So che rischia la morte».
Ho sviluppato un senso di insofferenza per queste espressioni eufemistiche che cercano di sviare l’attenzione e edulcorare la realtà dei fatti: “è passata a miglior vita”, “si è addormentato”, “non ce l’ha fatta”, “si è spenta”, “ci ha lasciato”, “non è più tra noi”. La morte fa schifo, ma esiste. Voglio chiamarla con il suo nome. Non voglio nasconderla sotto un tappeto di parole vuote. Ho bisogno di precisione: questo, per me, è il vero atto di gentilezza: chiamare le cose con il proprio nome, anche quando è scomodo, anche quando fa male.
Paola Chiara Masuzzo, nella puntata Eppur si muore della sua newsletter Fate ə monellə, specifica: «Ho sempre pensato che dare un nome alle cose fosse uno strumento potente per avvicinarle un po’ a sé, per conoscerle meglio, per esorcizzarle, se necessario. Per creare contenitori di culture, sapienza, vicende umane, tradizioni, storie grandi e belle o tristi e terribili. Le cose esistono, ma indicarle non è mai sufficiente. Per comprenderle, perché diventino discutibili, oggetto di confronto, di ricerca, di crescita, occorre che abbiano un nome».
«Stiamo abbandonando il linguaggio della morte. Il timore di dire qualcosa di sbagliato a persone in fin di vita o in lutto porta amicizie e famiglia a non dire nulla, a “parlare positivo” o a evitarle del tutto. [...] Parlare di morte è diventato sconveniente. Forse, sta persino diventando scortese morire», scrive Kathryn Mannix in Enough of the euphemisms. Let’s talk about death openly and honestly, sul «Guardian» (traduzione mia).
Non conto nemmeno le volte in cui ho risposto stizzita alla domanda «Com’è scomparso tuo marito?». Non solo per la sua indelicatezza – cosa cambia saperlo, a una persona che non mi conosce e non lo conosceva? Comunque: «Federico non è scomparso, non l’ho perso, non è mancato: è morto». Questa è la mia risposta standard, le volte in cui decido di rispondere.
La verità è che non parliamo apertamente della morte, ma ne abbiamo terrore, proprio perché non sappiamo cosa aspettarci. Lo spavento e l’inadeguatezza aumentano all’aumentare dell’improbabilità dell’avvenimento (la morte di un marito, una moglie, un compagno o una compagna in giovane età, un figlio, una figlia). E quindi aumentano di conseguenza anche le domande pruriginose, le parole sbagliate, i commenti inopportuni. Sarà per evitarli, quindi, che tante persone si dileguano dalla vita di chi subisce un lutto?
Dopo la morte di Federico, ho anche imparato a odiare la domanda «Come stai?». Lo so, sembra innocua, e pure piena di cura. Ma lo è davvero? Chi ti è vicino lo sa, come stai, senza bisogno di chiedertelo. E chi non ti conosce, perché, esattamente, vuole saperlo? Gli interessa davvero, o c’è della curiosità morbosa, legata al tentativo di esorcizzare la paura atavica della morte attraverso l’osservazione dell’esperienza altrui?
Davide Cardile racconta la sua reazione al «Come stai?» nella puntata Non è ok (non) essere ok (Un anno dopo) della sua newsletter Ci sono parole: «Le persone ci tengono a chiedermelo. E io già da tempo mi sono stancato di rispondere. Non perché non voglia parlare con le persone ma solo perché ogni risposta sarebbe sbagliata, parziale, o troppo poco articolata per avvicinarsi alla realtà. Oppure perché capisco benissimo che non è ciò che le persone vogliono sentire quando chiedono “come stai?” E capisco benissimo che non è neanche questione di cattiveria. È solo che ci sono distanze difficili da colmare, prospettive che non permettono di avere la stessa visuale e capire».
La domanda «Come stai?» costringe la persona che la riceve a rispondere con una pietosa bugia – «Bene», «Non c’è male», «Dai, non mi lamento» – oppure con la verità. Che, almeno nei primi tempi, non è mai bella. Raccontare come ti senti dopo che hai subito un lutto è devastante. E se anche la persona che te lo chiede ti becca in un raro momento di serenità o svago, il «Come stai?» ti costringe a pensare a come ti senti e a verbalizzarlo. Insomma: magari tu stavi solo cercando di passare un pomeriggio sereno, e invece ti tocca esplorare di nuovo il tuo dolore.
Queste riflessioni sono personali, e so che non appartengono a tutte le persone in lutto. Ma credo che diano una prospettiva diversa dalla narrativa sulla morte a cui ci hanno abituato, e siano più diffuse di quanto crediamo. Se solo riuscissimo a parlare più spesso di morte, e ad ascoltare le poche persone che lo fanno, senza scappare.
Quei viaggi nel rimosso
Alphaville 16.04.2024, 11:45