A più di vent’anni dalla scomparsa di Pierre Bourdieu, il suo pensiero continua a interrogare il presente. La raccolta Imperialismi. Circolazione internazionale delle idee e lotte per l’universale, curata e tradotta da Anna Boschetti per Quodlibet, restituisce una parte meno esplorata ma decisiva della sua opera: la critica alle forme di dominio che attraversano la produzione culturale e i dispositivi globali della conoscenza. Non si tratta di imperialismo in senso economico, ma di un potere simbolico che agisce attraverso concetti, modelli e teorie apparentemente neutre, imponendo gerarchie invisibili tra lingue, istituzioni e tradizioni intellettuali.
Il volume raccoglie saggi inediti o rari, ordinati grazie a un lavoro filologico complesso. Come spiega Boschetti, Bourdieu non è mai stato confinato alla dimensione nazionale: se i suoi studi più celebri – La distinzione, La riproduzione – si radicano nella società francese, la sua prospettiva è sempre stata comparativa e internazionale. Già le prime ricerche in Algeria lo portano a confrontare contesti diversi, e negli anni il sociologo costruisce reti di studiosi e gruppi transnazionali, convinto che la scienza sociale debba sottrarsi alle frontiere.

Ma cosa intende Bourdieu per “imperialismo dell’universale”? È la pretesa di universalità di prodotti culturali che, in realtà, sono situati e particolari. Concetti come underclass, nati in Europa e poi rielaborati negli Stati Uniti, diventano strumenti di classificazione globale, caricati di connotazioni razziste e evoluzionistiche. Lungi dall’essere neutri, questi termini contribuiscono a naturalizzare disuguaglianze e a esportare categorie americane in contesti dove non hanno senso. Lo stesso vale per nozioni come “razza”, che negli USA conservano un peso storico e giuridico, ma che vengono applicate altrove senza considerare le differenze.
Il cuore della critica è chiaro: la società americana cumula tutte le forme di capitale – economico, politico, culturale, linguistico – e il primato dell’inglese rafforza il predominio delle sue élite accademiche ed editoriali. Le grandi case editrici anglofone controllano la circolazione delle opere, e la traduzione diventa un passaggio obbligato, governato da agenti e intermediari concentrati a New York e Londra. Anche quando emergono autori “periferici”, il loro successo dipende da processi di appropriazione che riscrivono e reinterpretano i testi secondo logiche di mercato e potere.
Questa riflessione, osserva il professore di studi culturali e postcoloniali Iain Chambers, dialoga con le teorie postcoloniali e con autori come Fanon e Glissant, che hanno mostrato come l’Occidente si sia costruito sulle spalle del “Terzo mondo”. Tuttavia, Chambers invita a considerare le voci che oggi attraversano e trasformano le lingue egemoniche: il dibattito non si esaurisce nella denuncia, ma apre spazi per prospettive “eretiche” che sfidano le tracce imperiali.
Bourdieu non si illude sulla neutralità della scienza. Al contrario, dedica ampio spazio alla riflessività: il ricercatore deve oggettivare se stesso, riconoscere la propria posizione situata e i limiti delle categorie che utilizza. Solo così è possibile costruire una sociologia capace di dialogare con altre culture senza riprodurre gerarchie invisibili.
Oggi, in un mondo accademico apparentemente più aperto e in un mercato culturale globalizzato, queste analisi restano attuali. Le asimmetrie persistono, e la circolazione delle idee continua a essere segnata da rapporti di forza. Imperialismi non è solo un libro su Bourdieu: è un invito a interrogare le nostre certezze, a smascherare l’universale che si nasconde dietro il particolare, e a pensare la conoscenza come campo di lotta.
Gli imperialismi di Bourdieu
Alphaville 09.12.2025, 12:05
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