Storia

Sull’orlo dell’abisso

L’“altra Germania” nelle testimonianze di Walter Benjamin e Thomas Mann 

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Mario Sironi, Sarabanda finale (1918)

Di: Mattia Mantovani 

C’è un genere letterario che si potrebbe definire “autobiografia obliqua” e consiste in sostanza nel parlare di sé parlando degli altri, o in altri termini nel fornire un’immagine della propria vita descrivendo o evocando quella altrui. Lo ha sintetizzato come meglio non si potrebbe un “autobiografo obliquo” del rango di Jorge Luis Borges in uno splendido apologo contenuto ne L’artefice, dove l’io narrante, giunto al termine della vita, si rende conto che il proprio volto è costituito dalle persone che ha amato, dai libri che hanno modellato la sua visione del mondo, dai dipinti che ha ammirato, dalle musiche che ha ascoltato, dalle cose che ha immaginato e dai luoghi che ha visto.

Limitando il discorso all’ambito della letteratura di lingua tedesca, le celebri biografie di Stefan Zweig sono un tipico esempio di questo genere espressivo, con l’autore che parla di se stesso parlando degli altri (la biografia dedicata ad Erasmo da Rotterdam, in particolare, può essere letta direttamente come un’autobiografia, e lo stesso vale per la biografia consacrata a Montaigne negli ultimi mesi di vita e non portata a termine). Ma a ben vedere quasi tutta la cosiddetta Exilliteratur, la “letteratura dell’esilio” prodotta dagli scrittori tedeschi e più in generale germanofoni costretti alla fuga dalla barbarie nazista, è una letteratura che ha coltivato a fondo questo genere e lo ha declinato in molteplici variazioni. 

Oltre al già citato Zweig meritano infatti una menzione particolare Klaus ed Erika Mann, che negli anni dell’esilio negli Stati Uniti si sono dedicati al genere dell’autobiografia obliqua non solo per illustrare la propria condizione e trovare un’ancora di salvezza negli illustri esempi del passato, ma soprattutto per mostrare, come dice il titolo di un saggio di Klaus, che esisteva anche un’“altra Germania” che nulla aveva a che spartire con la nazione trasformata dalla canaglia hitleriana in un immane mattatoio. Una nazione, insomma, che poco o nulla aveva a che spartire con la nazione depositaria in maniera esclusiva della Kultur (la “civiltà” nel senso più alto e insieme profondo e rigoroso del termine, in opposizione alla compromissoria “civilizzazione” della democrazie europee, difesa strenuamente dallo zio Heinrich) teorizzata circa un ventennio prima da babbo Thomas nelle controverse, sgradevoli ma imprescindibili Considerazioni di un impolitico. Ma la questione (ovviamente non solo tedesca) è terribilmente complessa e complicata, senza dubbio tra le più spinose tra quelle lasciateci in eredità dal “secolo breve”.

L’idea dell’“altra Germania” fa da sfondo anche a uno dei prodotti più originali della letteratura dell’esilio, Uomini tedeschi, la ricca e suggestiva antologia di scambi epistolari con la quale un altro grande esule, Walter Benjamin, volle mostrare che la vera Germania era non già quella degli orrori nazisti, quanto piuttosto quella dei grandi scrittori e filosofi del Settecento e dell’Ottocento, i quali avevano incarnato l’idea di un’altra civiltà (sempre nel senso manniano di Kultur, ma nel solco dell’illuminismo espresso nella Drammaturgia amburghese di Lessing e senza alcun sigillo e pretesa di esclusività) fondata sul rispetto, sull’universalità dei valori, sul concetto goethiano di “forma”  – presente soprattutto nelle Affinità elettive – e su un fortissimo senso etico. Prima di optare per Deutsche Menschen, Benjamin aveva pensato a un titolo che rende molto bene l’idea complessiva del progetto: Das unterschlagene Deutschland, “La Germania occultata”.

Benjamin consegnò a quest’opera, uscita dapprima sulla Frankfurter Zeitung nel 1931 e cinque anni dopo in volume, il proprio testamento umano e spirituale. La situazione era disperata, Benjamin poteva pubblicare soltanto sotto pseudonimo, e in effetti questo libro possiede tutta la tragicità e la sincerità di una testimonianza estrema sull’orlo dell’abisso, come un grido disperato per far sapere al mondo che c’erano stati anche “altri tedeschi” che parlavano «senza dover falsare la propria voce». Un libro come Uomini tedeschi, da questo punto di vista, si affianca idealmente ad altri libri di Benjamin quali Infanzia berlinese intorno al Millenovecento e Immagini di città, perché ripropone l’idea del viaggio, nella sua dimensione metaforica e insieme fondante, come movimento a ritroso nel tempo, per scorgere un passato che racchiude – o dovrebbe racchiudere – i presagi del futuro.

Il tratto più originale di Uomini tedeschi consiste nel fatto che Benjamin, per confermare e avvalorare questo assunto, aveva scelto non i passi più significativi degli autori in questione, ma alcuni brani dei loro carteggi, che a suo modo di vedere mettevano in particolare risalto i valori di fondo dell’essere “uomini tedeschi”: la sobrietà appassionata, l’etica fondata sulla responsabilità, la ricerca dell’universalità  – la leggendaria e utopica blaue Blume, il “fiore azzurro” vagheggiato da Novalis nell’Enrico di Ofterdingen, che avrebbe composto in una superiore e armoniosa unità tutte le flagranti contraddizioni della vita e della storia – mai disgiunta da un profondo e legittimo amore per il particolare, l’altissimo senso della patria espresso nella parola Heimat, che rimanda a qualcosa di completamente diverso rispetto alla patria stessa intesa in senso nazionalistico e aggressivo come Vaterland

Il novero degli “uomini tedeschi” di Benjamin è molto ampio, ed è interessante notare che di questo novero, accanto ai vari Goethe, Kant, Büchner, Lichtenberg, Hölderlin e Brentano, massimi rappresentanti della cosiddetta “anima tedesca”, fa parte anche lo zurighese Gottfried Keller, esponente a pieno titolo della cultura tedesca e rappresentato da una simpaticissima lettera del 1879 indirizzata da una lontana vicinanza all’amico tedesco Theodor Storm, che viveva a Husum, una località dell’estremo nord della Germania. A dimostrazione, quindi, che anche l’ironia, l’autoironia e la “leggerezza” (nel senso nobile e nietzscheano del termine) possono far parte dell’autentica “anima tedesca”. Lettore attentissimo e capace di cogliere anche le minime sfumature, Benjamin pone Keller sullo stesso livello di Lichtenberg, riconoscendogli giustamente una spiccata propensione all’umorismo, che pochissimi prima di lui avevano individuato.

L’edizione in volume di Uomini tedeschi uscì a Lucerna nel 1936 per i tipi del Vita Nova Verlag di Rudoph Rössler, un critico teatrale tedesco emigrato in Svizzera. Quattro anni dopo, Benjamin si suicidò in esilio nel piccolo villaggio di Port-Bou, al confine tra Francia e Spagna, quasi obbedendo a un destino già scritto da tempo. Lo stesso destino di Joseph Roth, Stefan Zweig, Klaus Mann e molti altri: tutti “uomini tedeschi” uccisi indirettamente dall’altra Germania, quella di Adolf Hitler. Anche per lui valgono quindi le parole che Heinrich Mann spese alcuni dopo in occasione della morte per suicidio del nipote Klaus: «E’ stata questa epoca ad ucciderlo».

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Georg Grosz, Metropolis (1916-17)

Ma c’è stata e c’è davvero un’“altra” Germania? La questione, a dir poco scivolosa, può forse trovare una risposta proprio in Thomas Mann, che si era autodefinito “disperatamente tedesco”, ha lasciato molte testimonianze sull’orlo dell’abisso e in sostanza non si è mai scostato dalla dialettica di Kultur e Zivilisation. Questa palmare e rigida distinzione di fondo, che lo stesso Mann ha in seguito rimodellato e perfino ripensato senza tuttavia rinnegarla, costituisce il filo conduttore degli scritti saggistici raccolti nel volume Moniti all’Europa.

Il dato che colpisce immediatamente è ravvisabile nell’incredibile attualità di questi scritti, che nel loro insieme vanno a comporre una biografia parallela di Mann dal 1922 al 1945 e nell’arco di quasi un secolo non hanno perso nulla quanto a impatto e suggestione, di modo che risultano di decisiva importanza per capire non solo la Germania e l’Europa che si gettarono nell’abisso del secondo conflitto mondiale, ma anche talune dinamiche che hanno caratterizzato il periodo della guerra fredda e in ultima analisi continuano a condizionare pesantemente le crisi sociali, politiche e culturali del vecchio continente. 

Fedele alla distinzione tra la “civiltà” nel senso tedesco e la “civilizzazione” nel senso democratico-occidentale, solo apparentemente sconfessata nel fondamentale saggio del 1922 Della repubblica tedesca, babbo Thomas si muove su una linea differente rispetto a quella del fratello Heinrich e dei figli Erika e Klaus. La differenza emerge soprattutto negli scritti degli anni Trenta e Quaranta, dalla durissima lettera di risposta al rettore dell’università di Bonn, che nel 1936 gli aveva revocato la laurea honoris causa, fino ai due scritti post-bellici La Germania e i tedeschi e Perché non ritorno in Germania, passando attraverso i celebri appelli radiofonici agli ascoltatori tedeschi inviati dall’America, che occupano la parte centrale del volume.

A differenza del figlio ribelle Klaus, che si era sforzato disperatamente di mostrare che esisteva anche una Germania “buona”, lontanissima dalle efferatezze di Hitler e compari, babbo Thomas, molto più realisticamente e con straordinaria lucidità e onestà intellettuale, ricostruisce un percorso molto impervio che dal “demoniaco” Lutero, passando attraverso il Faust di Goethe, il romanticismo e la musica di Wagner, arriva idealmente fino a Hitler, che ne costituisce un fatale pervertimento. Ecco perché a suo modo di vedere, come si può dedurre da un passo del celebre discorso del 29 maggio 1945 sull’essenza e sull’anima tedesca, la tragedia si configura piuttosto come una sventura.

Perché non ci sono due poli dialettici, non c’è una ragione contro un torto: «Non vi sono due Germanie, l’una buona e l’altra malvagia, ma vi è una Germania soltanto, il cui bene per una perfidia del diavolo degenerò in male. La Germania malvagia è quella buona finita male, è quella buona nella sventura, è il bene precipitato nella colpa e nella rovina. Io ho tutto dentro di me, ho tutto sperimentato su me medesimo». Si potrà discutere all’infinito sulla “perfidia del diavolo” e sull’implicito determinismo, ma rimane il fatto che le ultime parole sono davvero rivelatrici, perché una volta tanto Thomas Mann abbandona il consueto, sfuggente ed elusivo understatement, che in sostanza era una studiata strategia difensiva più che un abito morale, e si rivela di una sincerità dolorosa, disarmante, senza dubbio estremamente sofferta.

Forte di questa sofferta consapevolezza, e della consapevolezza più volte ribadita di essere un “rappresentante” e non un “martire”, alla fine del secondo conflitto mondiale Mann non può che rimodellare le proprie convinzioni e indicare nella democrazia l’unica possibilità di salvezza per il popolo tedesco e il genere umano nella nuova epoca che si sta aprendo. A patto, però (e qui riaffiora la vecchia concezione della “civiltà” opposta alla “civilizzazione”), di non considerare la democrazia come un dato acquisito una volta per tutte. E nella speranza, purtroppo profeticamente vana, che l’essere umano possa infine cambiare.

Ha scritto infatti in un saggio dal titolo La democrazia che verrà, riuscendo nell’impresa di saldare politica e antropologia e prefigurando uno scenario che per noi “venuti dopo” costituisce ormai la normalità, ma una normalità opaca, sempre più sinistra, con troppe zone d’ombra, totalmente anticipata nella vertiginosa domanda che affiora dalle ultime parole. Che sembrano davvero pronunciate sull’orlo dell’abisso e con lo sguardo fisso sul precipizio: «L’uomo è ormai tale che non si trova del tutto bene sulla terra in nessuna situazione e in nessuna circostanza. Nessuna forma di vita gli si confà o lo appaga perfettamente. Perché sia così, perché per questa creatura terrena ci sia sempre un resto di insufficienza, di insoddisfazione e di sofferenza, rimane e rimarrà un mistero».

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