Nella nostra storia, il lavoro minorile è un capitolo tutt’altro che chiuso. Abituati a pensarlo come un retaggio dell’epoca industriale - bambini sporchi di fuliggine, immortalati in foto in bianco e nero, chini su macchinari in fabbrica – è al contrario una realtà che ha semplicemente cambiato volto, facendosi più subdola, più silenziosa, ma che comunque continua a esistere.
Dai cotonifici dell’Ottocento alle forme mascherate del XXI secolo, il lavoro minorile è ancora tra noi — in Europa e nel resto del mondo.
Il lavoro minorile nei campi di cacao, l'inchiesta
RSI New Articles 12.01.2024, 11:08
La giornata mondiale e il contesto attuale
Il lavoro infantile è un fenomeno dalla portata talmente planetaria da aver fatto nascere nel 2002 la Giornata mondiale contro il lavoro minorile, grazie all’impegno dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) che da quell’anno, ogni 12 giugno, sensibilizza sull’ampiezza di questa dinamica, portando avanti nel contempo un lavoro a livello normativo e locale per prevenire lo sfruttamento dei bambini, sostenendo l’istruzione, la formazione professionale e le comunità.
La povertà è una delle cause principali, perché spinge le famiglie a far lavorare i propri figli per integrare il reddito familiare, conducendo a forme di sfruttamento minorile anche molto gravi, come la schiavitù, il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale, il traffico di minori, i lavori pericolosi e il reclutamento nei conflitti armati.
Va detto anche che una riduzione globale del fenomeno si è registrata negli ultimi vent’anni, ma i progressi non sono omogenei né tantomeno sufficienti; basti pensare che nel contesto dell’Agenda 2030 uno degli obiettivi prefissati dalla comunità internazionale (obiettivo n. 8.7) era quello di eliminare, entro il 2025, il lavoro minorile in tutte le sue forme, ma i dati più aggiornati indicano che a partire dal 2016 i progressi sono stagnanti a livello mondiale. Conflitti, crisi e la pandemia da coronavirus hanno spinto infatti molte famiglie nella povertà, aumentando dunque l’esposizione dei minori al rischio di sfruttamento lavorativo.
Il lavoro minorile in cifre
Secondo i dati Uniceff, nel 2020 il lavoro minorile riguardava circa 63 milioni di bambine e 97 milioni di bambini, ma a causa delle conseguenze della pandemia altri nove milioni di minori sono stati coinvolti, portando la quota complessiva a quasi un bambino su dieci a livello mondiale, di cui oltre la metà ha meno di dodici anni.
Questo sfruttamento si concentra prevalentemente nel settore agricolo, ma è presente anche nell’industria e nei servizi, e in generale molti di questi bambini lavorano in condizioni pericolose, che mettono a rischio la loro salute e la loro sicurezza. Inoltre, sebbene i maschi risultino più frequentemente interessati rispetto alle femmine, queste ultime sono spesso impiegate in lavori domestici, che tuttavia non sempre vengono rilevati nelle statistiche.
La più alta presenza di lavoro minorile è registrata in aree dell’Africa Sub-Sahariana, dell’Asia Meridionale, dell’America Latina e del Medio Oriente, ossia in zone dove appunto la povertà è maggiormente diffusa, ma dove è anche limitato l’accesso all’istruzione, dove ci sono conflitti armati, così come dove vigono norme sociali che accettano questa pratica; luoghi in cui, per di più, le crisi economiche e umanitarie aggravano ulteriormente il fenomeno.
Lavoro minorile, un problema sempre attuale
RSI Nouvo 12.06.2021, 11:25
La storia del lavoro minorile
Nell’Ottocento, durante la Rivoluzione Industriale, anche in molti paesi europei il lavoro minorile rappresentava un elemento essenziale della produzione, con condizioni di lavoro spesso estremamente dure e pericolose.
In Inghilterra, ad esempio, fin dai primi decenni del XIX secolo, bambini e bambine venivano impiegati nelle fabbriche tessili, nelle miniere di carbone e in altri settori industriali, con un orario di lavoro che poteva superare le 12-16 al giorno, spesso in ambienti rischiosi e malsani, con conseguenze gravi per la salute e lo sviluppo fisico dei minori. La storica dell’economia britannica Katrina Honeyman documentò questo fenomeno in particolare nel suo studio Lavoratori minorenni in Inghilterra, 1780-1820 (Cambridge University Press, 1982), nel quale descrive le dure condizioni di vita e di lavoro di questi bambini.
Un primo tentativo di tutela normativa avvenne con il Factory Act del 1833, con cui si tentò di limitare l’orario di lavoro e di vietare l’impiego di bambini sotto i 9 anni; purtroppo come evidenziato anche nell’Enciclopedia Britannica, l’applicazione di questa legge fu spesso inefficace, anche a causa di una sorveglianza decisamente carente.
Allo stesso modo, accompagnando l’avanzata della rivoluzione industriale, il lavoro minorile si diffuse anche in Francia - dove i minori lavoravano nei cantieri, nelle miniere e nelle manifatture tessili, soprattutto nelle regioni industriali del Nord e della Loira, e nonostante la legge del 1841 che vietava il lavoro ai minori di otto anni, l’applicazione fu blanda fino al 1874, quando l’età minima fu fissata a dodici anni, con delle eccezioni. Medesima situazione si presentò anche in Italia, dove nel Nord l’impiego di minori avveniva prevalentemente nelle fabbriche tessili e nei laboratori artigiani, mente nel Sud soprattutto nei campi e nelle miniere di zolfo siciliane, con le prime leggi a tutela dell’infanzia che arrivarono solo nel 1886, con scarso effetto pratico.
Il lavoro infantile fu capillarmente diffuso anche in Germania, dove la Legge sull’orario di lavoro del 1891 rappresentò un primo tentativo di limitare le ore lavorative, ma la cui applicazione, anche in questo caso, fu scarsamente applicata soprattutto nelle aree rurali o nelle piccole imprese dove i controlli erano insufficienti e le condizioni di lavoro restavano dure (Hans-Ulrich Wehler, Storia della società tedesca 1849–1914, C.H. Beck, 1995).

Tre ragazzi "coolie" cinesi, in posa per una fotografia di costume a Hong Kong. La fotografia è stata scattata negli ultimi anni del 1800.
Il lavoro minorile in Svizzera
Anche nella Confederazione elvetica la situazione non fu dissimile. Nel corso del XIX secolo e nei primi anni del XX, i minori i Svizzera rappresentavano infatti una risorsa lavorativa fondamentale per molte famiglie, e il passaggio dalla fattoria alla fabbrica non fece che aumentare l’immagine del bambino in quanto forza lavoro a basso costo, impiegandoli ampiamente soprattutto nel settore tessile, anche al di sotto dei 12 anni e per lunghe giornate di lavoro spesso in condizioni pericolose e insalubri (L’infanzia rubata dei bambini delle fabbriche, Swissinfo, 2017) .
Anche in questo caso, una reale tutela non fu possibile per lunghissimo tempo. Nonostante nel 1877 fu introdotta la legge federale sul lavoro nelle fabbriche che vietò formalmente il lavoro dei bambini sotto i 14 anni e limitò l’orario di lavoro a un massimo di 11 ore giornaliere per i giovani tra i 14 e i 18 anni, principalmente a causa di un’applicazione solo graduale e soprattutto differenziata della norma a seconda dei cantoni.
Come spiega la storica Pia Schubiger «specialmente nelle regioni più povere e isolate, i bambini continuarono a essere una forza lavoro essenziale per l’economia delle famiglie, come gli spazzacamini ticinesi in Italia e i bambini di Svevia. Inoltre, anche nel XX secolo, la storia svizzera viene macchiata da alcune pagine tragiche, come quelle legate ai collocamenti coatti, che si sono protratti fino al 1981, e alle misure coercitive a scopo assistenziale – lavori forzati a scopo educativo, quindi non retribuiti, protratti sino agli anni ’70. » (Le tante facce del lavoro minorile in Svizzera, Swissinfo, 2024).
Il progresso apparente del XX secolo
Nelle ultime decadi del Novecento, i paesi industrializzati ridussero progressivamente le situazioni di sfruttamento dell’infanzia grazie all’obbligo scolastico e a nuove leggi sul lavoro. In Svizzera, ad esempio, nel 1874 fu introdotto l’obbligo scolastico quale diritto fondamentale, preceduto un anno prima anche dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) che in Europa stabilì l’età minima per essere impiegati nel mondo del lavoro, attraverso la Convenzione n. 138. Nel corso del secolo in effetti a più riprese furono fissate le norme di età minima in diversi settori (nell’industria nel 1919, nell’agricoltura nel 1921, ecc.) ma la convenzione rappresentò uno “strumento generale a tale riguardo, che dovrebbe progressivamente sostituire gli strumenti esistenti applicabili a settori economici limitati, in vista dell’abolizione totale del lavoro infantile […]” (Convenzione n. 138 concernente l’età minima di ammissione all’impiego). Un atto fondamentale per garantire tutele specifiche, obbligando a controlli efficaci e sostituendo progressivamente convenzioni precedenti sul tema. Da quel momento l’età minima per l’accesso al lavoro non poté essere inferiore a 15 anni (14 nei Paesi con economia meno sviluppata), mentre per i lavori pericolosi l’età minima fu fissata a 18 anni (16 con formazione adeguata), ad eccezione di lavori considerati leggeri (13-15 anni) e attività artistiche autorizzate.
Ulteriori convenzioni furono siglate nelle decadi successive, come la Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989 - ratificata da 176 paesi con lo scopo di fissare l’età minima lavorativa e a regolamentare il lavoro minorile, prevedendo sanzioni per la mancata applicazione delle disposizioni - e la Convenzione OIL n. 182 del 1999 - che mirò all’eliminazione delle peggiori forme di lavoro minorile, tra cui la schiavitù, il traffico di bambini e il lavoro pericoloso.
Il volto attuale del lavoro minorile: globale e mutante
Mentre in Europa si facevano dei passi avanti, nei Paesi in via di sviluppo crebbe una nuova generazione di minori sfruttati: nei campi, nelle fabbriche tessili, nei laboratori informali. La globalizzazione e la povertà strutturale hanno infatti spinto milioni di bambini a lavorare, spesso in condizioni pericolose e senza diritti.
Ad oggi il lavoro minorile è quantomai presente e diffuso, come dimostra ancora l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, secondo la quale oltre 160 milioni di bambini nel mondo - la maggior parte dei quali in Africa, Asia e America Latina - sono ancora coinvolti in forme di lavoro spesso pericolose o lesive della dignità umana (ILO, 2021 – Global Estimates of Child Labour): i bambini raccolgono cacao, cuciono scarpe, estraggono minerali essenziali per smartphone e batterie.
E anche in Europa, Svizzera compresa, sebbene sia formalmente vietato, si segnalano ancora forme di sfruttamento minorile e lavoro sommerso: bambini coinvolti in tratta di esseri umani, in attività domestiche forzate, nei circuiti dell’accattonaggio organizzato o nel lavoro nero familiare, anche nel contesto dell’economia digitale come nel caso di baby influencer e dei lavori creativi non regolamentati (Rapporto dell’Ufficio federale di polizia fedpol24).
https://rsi.cue.rsi.ch/info/ticino-grigioni-e-insubria/I-social-media-paradiso-o-inferno-per-ragazzi-e-giovani--2802949.html
Economia digitale e baby influencer
Quest’ultimo nuovo capitolo dello sfruttamento minorile si è infatti aperto negli ultimi anni con l’avvento dell’economia digitale: bambini e adolescenti che vengono coinvolti nella creazione di contenuti per piattaforme social, spesso gestiti dagli stessi genitori, per generare profitti significativi. Un’attività che solleva preoccupazioni riguardo alla protezione dei minori e, in particolare, al concetto di equilibrio tra vita privata e pubblica a cui si dovrebbe avere diritto, ma che concretamente è difficile da salvaguardare a causa della mancanza di normative specifiche nel contesto digitale.
Organizzazioni come Save the Children evidenziano dunque non solo i rischi associati a queste pratiche (molti di questi bambini lavorano senza tutele contrattuali, senza orari definiti o garanzie di reddito, esponendosi a rischi psicologici, perdita della privacy e sfruttamento economico da parte di familiari o agenzie), ma anche la necessità di sviluppare un quadro normativo adeguato per tutelare i diritti dei minori coinvolti.
Se in Francia nel 2020 è stata introdotta una legge per regolamentare i guadagni e i tempi di attività dei baby influencer, in Svizzera invece (così come in molti altri paesi) questa regolamentazione è ancora assente, nonostante le crescenti segnalazioni da parte di esperti dell’infanzia, che portano comunque il tema al centro del dibattito politico e sociale, con iniziative volte a garantire una maggiore protezione dei minori nell’ambito digitale.

Internet: la protezione dei minorenni in Svizzera
SEIDISERA 18.02.2025, 18:00
Contenuto audio
Pensare che il lavoro minorile sia un problema del passato è dunque una pericolosa illusione, perché anche nei contesti più insospettabili il suo spettro si ripresenta appunto sotto nuove forme. Il primo e doveroso passo da compiere per contrastarlo è quindi anzitutto quello di riconoscerne l’esistenza.
E nel 2025, in occasione della ventiquattresima Giornata mondiale contro il lavoro minorile, l’obiettivo è quello di sensibilizzare ancora di più l’opinione pubblica, per promuovere azioni concrete che eliminino definitivamente il lavoro minorile in tutto il mondo. Un impegno continuo da parte delle autorità e delle organizzazioni non governative, ma anche della società civile. Educazione, controllo delle filiere produttive, regolamentazione del lavoro digitale e politiche di inclusione, sono infatti gli strumenti indispensabili per proteggere l’infanzia, oggi come ieri.