Svizzera

Le aziende svizzere e i loro rapporti con Israele

Dopo due anni dall’aggravarsi del conflitto, poche aziende elvetiche si sono mosse, soprattutto alla luce d’inchieste e rapporti di organizzazioni internazionali

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Oltre agli investimenti, un'azienda svizzera è la principale esportatrice di carbone per l'elettricità in Israele

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Di: AWP/ATS/feta 

Poche aziende svizzere hanno ritirato i propri investimenti con lo Stato d’Israele nonostante la condanna da parte di una commissione d’inchiesta dell’ONU. È quanto è emerso da un articolo di Christine Werle di AWP Finanznachrichten, che riporta i dati delle esportazioni nel primo semestre di quest’anno dell’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini. In tale periodo si è visto un aumento dell’1,1%, ovvero 517,1 milioni di franchi, mentre le importazioni da Israele sono rimaste praticamente stabili, diminuendo dello 0,1%, a 249,9 milioni.

Nel suo rapporto di quest’estate ”Dall’economia di occupazione all’economia di genocidio”, la relatrice speciale per i territori palestinesi Francesca Albanese aveva messo sotto accusa una sessantina di società, tra cui la svizzera Glencore insieme all’americana Drummond. Questi due gruppi di materie prime sarebbero il principale esportatore di carbone per l’elettricità nello Stato ebraico.

Un aumento della pressione sulle aziende svizzere

Oltre alla condanna di una commissione ONU, c’è anche un parere della Corte internazionale di giustizia dell’Aia che sottolinea l’obbligo degli Stati di non favorire l’occupazione dei territori palestinesi. Questo significa che “la Svizzera ha l’obbligo di non acquistare beni provenienti dai territori occupati”, afferma Damien Scalia, professore di diritto penale internazionale all’Università libera di Bruxelles ed ex presidente della Lega svizzera dei diritti dell’uomo (LSDH) a Ginevra.

Per quanto riguarda l’export, cautela è necessaria con i beni a duplice uso. Quelli più problematici sono macchine utensili, pompe, valvole, convertitori di frequenza, circuiti stampati o software di crittografia, poiché possono essere utilizzati sia per scopi civili che militari. Per questo motivo serve un’autorizzazione della Segreteria di Stato dell’economia (SECO). “Possono essere visti come una partecipazione indiretta a crimini internazionali”, osserva Scalia, che è sicuro del commercio di alcune società svizzere con l’esercito israeliano, ma si astiene dal fare nomi essendo in corso un’indagine della LSDH.

Secondo la SECO, l’esportazione verso Israele di questi beni a duplice uso sono ammontate tra gennaio e giugno a 18,7 milioni di franchi. Un aumento del 51,5% rispetto al primo semestre dell’anno scorso, che si percepisce ancora meglio da un trimestre all’altro. Nel 2025, le consegne sono passate da 6,7 milioni tra gennaio e marzo a 13,0 milioni di franchi tra aprile e giugno.

Tra gennaio e giugno, le esportazioni di beni a duplice uso verso Israele sono ammontate a circa 19,7 milioni di franchi, secondo la SECO. Rispetto al primo semestre dell’anno scorso, ciò rappresenta un aumento del 51,5%. L’aumento è percepibile anche da un trimestre all’altro. Nel 2025, le consegne sono passate da 6,7 milioni tra gennaio e marzo a 13,0 milioni di franchi tra aprile e giugno.

Non si salvano nemmeno gli investimenti

Sempre secondo Damien Scalia, anche alcune assicurazioni svizzere avrebbero partecipazioni finanziarie in società israeliane che partecipano al conflitto israelo-palestinese. Suva ha investito attivi in Israele che rappresentano lo 0,12% del patrimonio totale dell’assicuratore. “Deteniamo le obbligazioni direttamente”, ha precisato una portavoce dell’assicurazione contro gli infortuni, “mentre le azioni sono gestite da un fondo terzo”.

Intanto, la Banca nazionale svizzera è oggetto in Parlamento a Berna di diverse interpellanze riguardanti la sua politica di investimento. In particolare, i suoi investimenti nell’azienda di armamenti israeliana Elbit Systems, che ha venduto all’esercito svizzero i droni da ricognizione attualmente contestati. A metà settembre, la BNS deteneva lo 0,19% di Elbit Systems, secondo i dati del gruppo israeliano. BNS ha risposto di “non esprimersi sulle posizioni individuali del suo portafoglio” e rinvia ai suoi principi di politica di investimento e ai suoi criteri di esclusione nel suo rapporto di sostenibilità 2024. Nel paragrafo dedicato agli aspetti non finanziari presi in considerazione nella gestione delle partecipazioni, si legge che la BNS “si astiene dall’acquistare titoli di imprese che violano massicciamente i diritti umani fondamentali”.

Di fronte a questo immobilismo, c’è la Cassa pensioni dello Stato di Ginevra (CPEG) che ha invece deciso a luglio di separarsi dalle sue obbligazioni di stato israeliane.

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