Volge al termine la campagna dei “16 giorni di attivismo contro la violenza di genere” che si è aperta il 25 novembre in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. SEIDISERA ha approfondito il legame tra linguaggio e violenza sulla scia di una delle iniziative tenute in questo periodo: il tema è infatti emerso durante un recente convegno all’USI di Lugano che ha posto il focus sulle vittime e sui temi della giustizia riparativa. La professoressa Sara Greco - intervenuta come relatrice - dirige l’Istituto di argomentazione, linguistica e semiotica dell’USI. “La violenza - sottolinea ai microfoni di SEIDISERA - certamente va al di là del linguaggio. Però nel modo in cui parliamo dei fatti violenti e di come eventualmente uscirne, l’uso delle parole e anche quello che non diciamo ma lasciamo intendere è molto importante”. La scelta delle parole e la narrazione che viene fatta dei fatti, rischia di mitigare - in maniera più o meno inconsapevole - le responsabilità. La professoressa ha citato diversi esempi tratti analizzando dei racconti o testi scritti da vittime di violenza domestica: “A volte le vittime nel raccontare i loro stessi episodi di violenza tendono a deresponsabilizzare l’autore. D’altro canto, nel percorso delle vittime che escono dalla violenza domestica c’è un processo inverso in cui la persona riprende coscienza del suo io, e questo lo si ritrova anche analizzando il discorso”.
Per la professoressa è importante mantenere uno sguardo critico e questo vale anche per il linguaggio utilizzato nei tribunali (e sui media) per rappresentare le vittime. “Anche nelle sentenze e nel modo in cui una persona vittima viene descritta nel processo si può responsabilizzare o deresponsabilizzare l’autore, per cui bisogna essere attenti alle parole anche in questi contesti, soprattutto nelle sentenze che poi rimangono scritte, restano poi anche come giurisprudenza”.
Villa: “In aula discorso tecnico e giuridico, ma importante far passare il giusto messaggio all’esterno”
Il tema del linguaggio utilizzato nei tribunali era già affiorato in Ticino la scorsa estate in relazione al processo a carico del sacerdote ed ex docente del collegio Papio di Ascona. Dopo la sentenza che lo ha condannato, il Gruppo di ascolto per le vittime di abusi in ambito religioso si era espresso criticamente su alcune frasi dette dal giudice durante la comunicazione della sentenza. Al di là del caso specifico, le autorità giudiziarie quanto tengono in considerazione aspetti come quelli sottolineati dalla professoressa Greco? SEIDISERA ha intervistato il giudice Marco Villa, vicepresidente del Tribunale penale cantonale.
Giudice Villa, come reagisce di fronte alle considerazioni della professoressa Sara Greco?
“Sicuramente nell’ambito di una sentenza l’uso del linguaggio è fondamentale in primo luogo per farsi capire. In secondo luogo, per essere il più chiari possibile, anche affinché le persone che sono in aula possano poi trasmettere alla vittima (che spesso non è in tribunale) quello che è stato il messaggio o comunque le argomentazioni fatte dalla Corte”.
Per i magistrati è recentemente entrato in vigore un codice etico. Gli aspetti legati all’uso del linguaggio durante i processi hanno uno spazio in quest’ambito?
“Direi di no, nel senso che noi in aula dobbiamo evidentemente spiegare quelle che sono le nostre argomentazioni e i ragionamenti che abbiamo fatto, rispettando evidentemente la personalità di tutti: sia dell’imputato sia delle vittime e di tutte le persone presenti, quindi dal punto di vista del codice etico non cambia sostanzialmente il nostro comportamento”.
Delle critiche in Ticino sono già emerse, è stata sollevata la questione del linguaggio: voi come giudici vi rifate ovviamente al codice penale. Ma in casi delicati come quelli di violenza quanto soppesate la scelta delle parole?
“Secondo me bisogna distinguere una considerazione importante, cioè quello che è il sentimento sociale, personale, popolare sul fatto che qualsiasi forma di violenza, violenza fisica o violenza sessuale, indipendentemente da chi è la vittima, è grave e grave resta e su questo credo che siamo tutti d’accordo. Questo però è un discorso generale. In aula noi dobbiamo fare un discorso tecnico e quindi in quanto discorso tecnico è chiaro che dobbiamo differenziare la gravità dal fatto di per sé, non del reato perché il reato resta grave, ma il fatto che ha portato a questo reato. E questo è importante anche perché sennò non potremmo giustificare un’equa o giusta pena in relazione al fatto stesso, perché se noi consideriamo un reato grave sì nel principio ma fattualmente non così grave rispetto ad altre circostanze simili, evidentemente la pena sarà più ridotta”.
E rispetto al fatto di responsabilizzare o viceversa deresponsabilizzare un autore attraverso l’uso delle parole, la narrazione che si fa: c’è un’attenzione a questi aspetti?
“Io credo che - anche per esperienza mia ed anche dei miei colleghi - la cosa principale per la vittima - e su questo il linguaggio è fondamentale - è che passi il messaggio che la Corte, il tribunale nella sua sentenza ha creduto al suo racconto e quindi da lì ha poi costruito quella che è stata la sentenza stessa. La questione della responsabilizzazione o deresponsabilizzazione secondo me è un passo più in avanti rispetto a quel momento, perché presuppone una presa di coscienza sia da parte della vittima di essere stata creduta, rispettivamente una presa di coscienza da parte dell’autore che è stato condannato per quel reato (e spesso non è il caso che l’autore si riconosca colpevole). Quindi un passaggio di quel genere presuppone un lavoro ulteriore che non tocca al tribunale fare”.
Visto però che i processi sono un momento importante anche per la vittima stessa, l’idea - avanzata dalla professoressa - di una riflessione critica sulle parole e sulla narrazione anche in tribunale, anche in una sentenza. Secondo lei ci sono dei margini di miglioramento?
“Questo non lo so, nel senso che io ritengo che almeno come Tribunale penale cantonale siamo attenti ad usare le parole adeguate, pur essendo comunque sempre in un discorso tecnico visto che è per quello che noi siamo in aula. Si può migliorare ma il miglioramento secondo me è quello di far passare il giusto messaggio anche agli organi di stampa, che poi lo trasmettono all’esterno, perché se il messaggio che noi diamo non viene correttamente recepito evidentemente poi rischia di creare dei contrasti tra quella che era la nostra intenzione come spiegazione e quello che passa sia alla vittima da parte del suo patrocinatore sia attraverso gli organi di stampa e quindi per noi la priorità è quella di essere il più possibilmente chiari e oggettivi affinché il messaggio tecnico e giuridico fatto in aula possa passare”.





