Da quando fece la sua comparsa a Parigi, l’11 luglio 1889, all’Esplanade des Invalides, in occasione della fatidica e indimenticata Exposition Universelle per il centenario della Rivoluzione (e per la quale fu inaugurata la Tour Eiffel), il gamelan indonesiano divenne – e forse resta tutt’ora - l’emblema stesso, il non plus ultra dell’alterità musicale, di ciò che sta agli antipodi della musica europea. Musiques pittoresques le si chiamava allora, World Music diciamo noi con troppa faciloneria. Anche se di certo il gamelan di Giava o di Bali, così come la musica indonesiana in genere, non è paragonabile quanto a successo e diffusione alle musiche arabe, indiane, africane che da decenni sono ormai moneta corrente nella grande industria musicale. Questo per tante ragioni. E un po’ di queste ragioni ce le fa intuire Peni Candra Rini un’artista indonesiana che, dopo alcune produzioni che non hanno circolato in Occidente, ha pubblicato da poco Wani, il suo secondo album (solo digitale) per la New Amsterdam Records, etichetta newyorchese appartenente a quella esigua schiera eroica di case indipendenti che ancora resistono alle logiche – ora seduzione, ora ricatto – del mercato e della vendibilità. Ascoltando Wani, connubio quantomai azzardato, ma qui risolto genialmente, fra tradizione colta della musica giavanese e radicalismo “all’occidentale”, questa diversità la si tocca con mano. Peni Candra Rini, formazione accademica, virtuosa acclamata di sendhi (lo stile vocale più nobile della musica giavanese), Ph.D, e poi docente presso il prestigioso Institut Seni Indonesia Surakarta, ha riunito qui una band cosmopolita di 20 elementi. Il risultato è stupefacente.
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