Dice che il suo nome d’arte si può pronunciare come si vuole, ma c’è una pronuncia preferita, stromaì, alla brussellese. E come moltissimi ormai sanno, il nome deriva dall’inversione delle sillabe di “maestro”, secondo il gergo del verlan (l’envers). Il nome vero è Paul Van Haver: belga, figlio di una belga fiamminga e di un padre ruandese tutsi, ucciso nella tragica guerra interetnica del 1994. Multitude è solo il suo terzo album, uscito pochissimi giorni prima di questa recensione, e a nove anni da quello precedente. Ma nessuno si è dimenticato di lui, né nei paesi francofoni, né altrove: in Italia il suo secondo album è stato il primo tutto in francese ad andare in vetta alla classifica dei più venduti. È davvero un maestro, Stromae? Eccome, un maestro del nuovo modo di fare musica, non tanto un incrocio fra un cantautore e un rapper, quanto un bravissimo producer e topliner, allo stesso tempo. Come commenta il Corriere della sera: “Nei testi Stromae si mette nei panni di una miriade di personaggi, nella musica passa da violini cinesi a cori bulgari, da flauti persiani al charango, dal reggaeton all’afrobeat (senza featuring, anche se avrebbe voluto Adele)... La sua moltitudine umana include il figlio di una prostituta in Fils de joie, i lavoratori invisibili di Santé, l’uomo traditore di Mon Amour e chi ha pensieri suicidi in L’Enfer.”
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