È il 22 gennaio del 1980 quando Andrei Sakharov è arrestato a Mosca nel corso di una manifestazione contro l’entrata delle truppe sovietiche in Afghanistan. «Credo che l’Unione Sovietica», diceva, «debba porre fine a un’invasione che mina la credibilità del nostro Stato, rivelando con chiarezza il pericolo che una società totalitaria chiusa rappresenta per il mondo intero». È deportato a Gorky, 500 chilometri da Mosca, dove vive, racconta nelle sue memorie, sorvegliato giorno e notte dalla polizia.
La sua storia è quella della presa di coscienza dell’arbitrio violento del potere nell’Unione Sovietica: fisico nucleare, padre della prima bomba all’idrogeno sovietica negli anni Cinquanta, nel 1961 si è opposto alla ripresa degli esperimenti «perché potevano compromettere il disarmo e il dialogo per la pace».
Ha portato avanti battaglie importanti per difendere le libertà civili come quella di circolazione, informazione e opinione. Nei suoi scritti è intervenuto sulla pace, sul disarmo, sulla tutela dell’ambiente, ha affrontato criticamente il rapporto fra scienza e società, si è pronunciato contro la pena di morte.
La storia di Andrei Sakharov è ancora attuale e pericolosa per il regime di Putin: nell’aprile del 2023 il Ministero della giustizia russo ha chiuso in modo definitivo il Museo e Centro pubblico di Mosca a lui intitolato e voluto nel 1996 da sua moglie Elena Bonner.
Con Sergei Lukachevski, in esilio in Germania, dal 2008 direttore del Museo e Centro pubblico di Mosca Andrei Sakharov, Maria Candida Ghidini che insegna Letteratura russa all’Università di Parma e Giovanni Savino, ricercatore di Storia della Russia presso l’Università Federico II di Napoli.
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