Il 4 novembre 1995, Yitzhak Rabin veniva assassinato a Tel Aviv da un estremista di destra. Quel colpo di pistola non uccise solo un uomo, ma l’ultima vera speranza di pace tra israeliani e palestinesi. Rabin, generale e fondatore dello Stato ebraico, aveva compreso che solo un accordo con i palestinesi avrebbe potuto garantire un futuro di sicurezza per Israele. Come ricorda Lorenzo Cremonesi, intervistato da Cristina Artoni e Enrico Bianda nella rubrica radiofonica Alphaville, «l’Intifada fa capire agli israeliani pragmatici, attenti come lui, che in realtà qui c’è una popolazione che non vuole più essere sottomessa».
30 anni dall’assassinio di Yitzhak Rabin
Alphaville 04.11.2025, 12:05
Contenuto audio
Rabin fu ucciso al termine di una manifestazione per la pace, davanti a migliaia di persone, da tre colpi sparati a bruciapelo. L’assassino, Yigal Amir, era un giovane estremista della destra religiosa, legato al partito Kach, messo fuorilegge per razzismo. Rabin era diventato il bersaglio dell’odio della destra sionista religiosa. Emblematico è il caso di un giovane militante che allora si vantò di essere arrivato fino alla sua auto, affermando che avrebbe potuto colpirlo. Quel giovane era Itamar Ben Gvir, oggi ministro della sicurezza nel governo Netanyahu. Trent’anni dopo, la sua ascesa politica segna la distanza abissale tra l’Israele di Rabin e quello di oggi.
Gli Accordi di Oslo del 1993, firmati da Rabin, avrebbero dovuto aprire la strada a uno Stato palestinese. Ma la destra nazionalista lo bollò come traditore. Cremonesi racconta che «veniva ritratto, ad esempio, vestito da nazista, paragonato a Hitler, minacciato continuamente di morte». Il suo assassinio segnò la fine di Oslo e l’inizio di una nuova fase: Israele si avviava verso una trasformazione profonda, più radicale, più religiosa, più chiusa.
Benjamin Netanyahu, allora giovane leader del Likud, sembrò politicamente finito dopo l’omicidio. Invece, come osserva Ugo Tramballi (nell’intervista di Cristina Artoni e Enrico Bianda in Alphaville), «l’uomo è politicamente di grandi qualità. Intendo dire qualità non dello statista, ma qualità da sopravvissuto e capacità di restare attaccato al potere». Da allora, Israele ha cambiato volto. Il modello laico e socialista dei padri fondatori ha ceduto il passo a una visione etno-religiosa. Cremonesi sintetizza questo cambiamento con una frase potente: «Israele torna a essere un ghetto».
Nel 2018, una legge ha sancito Israele come “Stato-nazione del popolo ebraico”, contraddicendo la Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, che proclamava l’uguaglianza tra ebrei e arabi. Questa svolta ha alimentato la radicalizzazione del conflitto con i palestinesi, rendendo la soluzione dei due Stati sempre più remota.

30 anni dall'omicidio di Rabin
Telegiornale 04.11.2025, 12:30
La guerra a Gaza, seguita agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023, ha portato questa deriva alle estreme conseguenze. Il Paese è diviso: una maggioranza nazionalista e religiosa contro una minoranza laica e progressista, sempre più marginalizzata. Secondo un sondaggio citato da Tramballi, «l’85% degli israeliani voleva che la guerra di Gaza finisse», ma allo stesso tempo «oltre l’80% non è disposto a riconoscere la possibilità di uno Stato palestinese».
Israele oggi è un Paese militarizzato, ossessionato dalla sicurezza. «A Gerusalemme il 98,8% degli uomini porta con sé il mitragliatore da combattimento», nota Tramballi. Le contraddizioni interne sono esplosive: se si arrivasse a una pace con i palestinesi, il rischio è che il Paese imploda per le tensioni interne.
Anche il rapporto con l’ebraismo della diaspora si sta incrinando. Una parte dell’ebraismo americano, storicamente fondamentale per il sostegno politico e finanziario allo Stato ebraico, non si riconosce più nell’Israele attuale.
Rabin rappresentava l’“uomo nuovo”, l’israeliano laico e socialista, nato per superare l’identità dell’ebreo diasporico. Oggi, invece, l’ambasciatore israeliano all’ONU si presenta con la stella di Davide al petto, «che è assolutamente la negazione di Israele», denuncia Cremonesi.
Il ritorno a un’identità etnica e religiosa segna una rottura profonda con il sogno dei padri fondatori. Il futuro di Israele appare incerto. Diversi analisti parlano di “suicidio” dello Stato ebraico. Cremonesi non condivide questa definizione, ma avverte: «Se prosegue su questa china è destinato a non poter più esistere». Recuperare lo spirito degli Accordi di Oslo, tornare sulla via del dialogo, riaffermare i valori democratici: questa rimane l’unica strada per garantire un futuro di pace e sicurezza. La lezione di Rabin, a trent’anni dalla sua tragica scomparsa, non è mai stata così attuale.




