“Ogni tanto ricordo quando da bambino passavo del tempo con mio nonno. Aveva novant’anni e pensavo: Gesù, chi diamine vorrebbe vivere così a lungo?” Le parole rilasciate a Ellen DeGeneres cinque anni fa riassumono un tema ormai ricorrente per Clint Eastwood, che girata la boa dei novantacinque anni si è ritrovato a superare abbondantemente la soglia di quel nonno che da piccolo guardava con malcelato stupore. Negli ultimi tempi, Clint Eastwood è del resto tornato più volte a parlare di un invecchiamento che sente avanzare, ma che con forza e ironia cerca di tenere fuori da sé, quasi il duro che ha sempre rappresentato al cinema trattasse il tempo che avanza come i cattivi di un film, come se gli anni che corrono rimbalzassero sulla pelle alla guisa di proiettili su una lastra di metallo nascosta sotto il poncho.
Un anniversario, quello del suo novantacinquesimo compleanno, che coincide con i 70 anni dal suo esordio sullo schermo, quando nel 1955 recitò in un piccolo ruolo non accreditato in La vendetta del mostro (1955) di Jack Arnold, seguito del più noto Il mostro della laguna nera (1954). Una strada iniziata più o meno per caso, come ogni buona leggenda di Hollywood racconta, ma che si è trasformata nella via lastricata di successi che lo ha condotto a icona del cinema, davanti e dietro l’obiettivo. Un primo ruolo da protagonista con la serie TV Gli uomini della prateria, gli occhi del mondo puntati su di sé e quelli di Sergio Leone che già se lo immaginava nelle vesti del “cowboy senza nome”. Da qui sette decadi da compositore, attore, regista, sceneggiatore e politico accomunate da un minimo denominatore: una ferrea coerenza dettata dalla fedeltà ai propri ideali.

Nella sua capacità di passare da giovane cowboy a regista impegnato, Eastwood ha sempre mantenuto un’integrità che gli ha permesso di trasformarsi pur restando fedele ai propri principi, che non sono solo artistici, ma filosofici e politici. Nota è la sua fede repubblicana, così come la breve esperienza politica da indipendente che lo vide sindaco, per soli due anni, del comune di Carmel, dove fu eletto col 72% di preferenze. Clint è però un repubblicano sui generis, uno di quelli che sa sporcarsi le mani rimestando nei temi complessi che sviscera nelle sue pellicole da regista e che l’hanno reso un autore amato dal pubblico di qualsiasi fazione. Se questo accade non è solo perché il suo cinema tratta temi universali, ma perché è in grado di raccontare l’esistenza umana con una lucidità capace di restituirne la complessità e le contraddizioni.
La violenza contenuta in molte sue opere, da Il texano dagli occhi di ghiaccio (1976) alla serie Dirty Harry, passando per i numerosi western fino a pellicole più moderne come Mystic River (2003), non è solo una violenza esplorata come atto fisico, ma una “cicatrice emotiva” che può distruggere vite e che, in film come Gli spietati (1992), trasforma la figura dell’eroico pistolero in quella di una disillusa vittima di se stesso. Allo stesso modo, la riflessione sulla guerra sviluppata in film come Flags of Our Fathers (2006), Lettere da Iwo Jima (2006) o American Sniper (2014), non si limita a uno sterile resoconto degli eventi o una spettacolarizzazione delle azioni militari, ma diventa riflessione profonda sugli effetti a lungo termine della guerra, nonché sul senso della “gloria militare”. Una violenza che si ripropone anche nel razzismo e che, in produzioni come Gran Torino (2008) o Invictus (2009), si traduce prima in una messa in discussione individuale dei propri ideali, poi come atto collettivo per una presa di coscienza condivisa.
L’impressione che emerge, di fronte alla produzione artistica di Clint Eastwood, è allora quella di trovarsi di fronte a un autore che, per quanto saldo sui propri temi e principi, è in grado di metterli in discussione, forse proprio in nome di quella libertà e di quella indipendenza di cui si è sempre fatto portavoce. La visione politica apparentemente rigida di Eastwood si scioglie allora nella libertà personale inseguita dai suoi personaggi, costretti a riflettere su questioni morali e a lottare con conflitti interiori necessari a farli evolvere, ma sui quali il regista non moralizza né pone giudizi. Caso emblematico in tal senso è Million Dollar Baby (2004), dove la libertà di autodeterminarsi, così come la forza di volontà, sono in grado di cambiare non solo sé stessi, ma persino le persone che si hanno accanto. Una libertà tragica, quella della giovane Maggie Fitzgerald, che andando ben oltre la retorica del sacrificio o dell’eroismo mostra tutta la dignità dell’essere umano.

Clint sul set “Giurato Numero 2"
Forse, nelle ultimissime pellicole, Clint Eastwood ha perso un po’ di smalto. Forse, in Cry Macho (2021) si percepiva la stanchezza. Forse, Giurato numero 2 (2024) manca di momenti memorabili. Forse. Certo è che, anche in questi casi, Eastwood ha saputo farci riflettere su temi fondamentali quali la colpa, la giustizia e la redenzione. Mirabile è il suo modo di rovistare dentro la vita, ridiscutere ideali politici e religiosi, porre il pubblico di fronte a conflitti esistenziali apparentemente senza sbocchi. Esemplare il suo tocco. Il suo tenersi alla giusta distanza dalle cose, non per poterle allontanare, ma per prendere le distanze dai pregiudizi che le assediano.
Ora che, puntualmente, si specula su quello che sarà il suo ultimo film, Clint non accenna a ritirarsi. “Ogni film che faccio mi insegna qualcosa,” ha del resto confessato il regista. “È per questo che continuo a farli.”
Un samurai nel West. 60 anni di “Per un pugno di dollari”
Alphaville 16.09.2024, 11:45
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