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IT, Gramsci e il diavolo

Il clown mutaforma di Stephen King è uno dei mostri definitivi del nostro orizzonte culturale da quasi quarant’anni, e rappresenta la summa della poetica dell’autore semplicemente più influente del secondo Novecento

  • Oggi, 16:00
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It, 2017

  • IMAGO / Capital Pictures
Di: Vanni Santoni 

Torna IT, stavolta in tv, con la serie prequel Welcome to Derry, ma la verità è che IT non se ne è mai andato, visto che a quasi quarant’anni dall’uscita (il fatidico compleanno sarà nel settembre 2026) e con già due adattamenti su schermo, lo status di classico del romanzo di King è ormai da tempo fuor di discussione.

In effetti, anche se ciascuno ha il “suo” King, e c’è chi ama sopra ogni cosa l’asciuttezza di Carrie, chi l’epica dell’Ombra dello scorpione, chi non manca mai di ricordare che Shining è un capolavoro non men del film di Kubrick, chi fa l’eccentrico con La torre nera e persino chi sceglie i viaggi nel tempo di 11/22/63 – probabilmente il più potente tra i romanzi del King recente –, alla fine, se c’è da indicare a un profano “cosa leggere di King”, difficilmente la scelta andrà su un romanzo diverso da IT.

Le ragioni sono molteplici: prima di tutto, è evidente che IT è la summa della poetica e dell’immaginario dell’autore. Certo, non è l’unico romanzo in cui convergono tutti i suoi temi e le sue ossessioni, ma è certo quello in cui lo fanno in modo più chiaro e netto, quasi fosse un manifesto.

C’è poi la questione “icona”: Stephen King ci ha deliziati (o terrorizzati, secondo il punto di vista) con innumerevoli cattivi memorabili, ma tra tutti quello che si è preso un posto accanto a figure definitive dell’immaginario moderno e contemporaneo come Dracula, l’Uomo Lupo o il mostro di Frankenstein, è certamente il clown Pennywise.

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Al cinema col mostro

Charlot 26.10.2025, 14:35

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  • Barbara Camplani

Certo, IT è in realtà un mostro della categoria “mutaforme”, ma ciò che lo ha consegnato all’eternità è una certa forma, figlia di un’intuizione oggi ovvia ma a suo tempo folgorante: i clown non sono buffi, almeno agli occhi dei bambini. I clown, coi loro lineamenti esagerati e deformati, le loro scarpe giganti, i loro volti bianchi come quelli dei cadaveri e i nasi e le labbra rosse a contrasto, coi capelli colorati e “sparati” come dopo un elettroshock, ai bambini fanno paura. E in effetti, grazie a IT ci siamo liberati dei pagliacci: chi ha più rivisto uno Sbirulino o un Bozo the Clown a condurre un programma per l’infanzia? Oggi sarebbe considerato uno scherzo anche solo proporlo a un produttore.

Un altro elemento prettamente kinghiano (ma poi ripreso un po’ ovunque, anche fuori dall’horror) che in IT trova la sua sintesi più elevata è quello del gruppo di ragazzini che se ne va alla ventura sulle bici. Non i ragazzini fighi e popolari, ovviamente, ma quelli un po’ “perdenti” (termine molto americano che in Europa suona maluccio, ma ci siamo capiti), e che tuttavia si sono ritrovati tra loro e hanno fatto gruppo. Un gruppo che è sempre di preadolescenti o di primi-adolescenti, perché è in quella zona liminale tra l’infanzia e la piena adolescenza che si aprono gli squarci più inquietanti. Prendendolo alla lettera, ci si potrebbe spingere a leggere King con Gramsci: “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.” Ma è anche un chiaroscuro in cui si cresce, si trova un’identità, e quindi si acquisiscono anche le capacità necessarie per combatterli, quei mostri.

Ancora un punto: se è vero che la maggior parte dell’opera di King è una riflessione sul male – piccolo, grande, enorme, fantastico oppure reale, e quindi anche casalingo, locale, individuale –, IT è tra tutti i suoi romanzi quello che esplicita in modo più assoluto questo piano. Certo, qualcuno potrebbe tirare in ballo Randall Flagg, il cattivo dell’Ombra dello scorpione, che è in fondo il diavolo o qualcosa di molto vicino a esso, ma è in fondo un personaggio un po’ troppo divertito e divertente, come del resto non può che essere il diavolo una volta passata la modernità e la postmodernità, e difficilmente ci vedremo una pura incarnazione del male.

La vediamo invece in IT, e non solo per la sua natura proteiforme, ma anche per via dei flashback presenti nel romanzo, in cui si racconta, tra i tanti eventi, l’incendio di un bar per soldati neri da parte di un gruppo razzista di Derry – e IT è presente. Ispiratore, collaborazionista, osservatore segretamente entusiasta o manifestazione del male lì compiuto? Forse tutte queste cose assieme, perché il male funziona proprio così: può venire dal singolo, ma contamina la società solo se tutti, in qualche misura, ne sono partecipi, anche nell’inazione contro di esso.

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Tim Curry nei panni di Pennywise, 1990

  • IMAGO / Allstar

Per tutte queste ragioni, e molte altre – IT è anche uno dei tanti romanzi in cui viene fuori al meglio la grande umanità di King, la sua capacità di immedesimarsi in chiunque, e far immedesimare in chiunque chi legge – non ci stancheremo mai di leggerlo e rileggerlo, e nemmeno di vederlo adattato in TV o al cinema. Adattamenti che finora sono stati sempre insufficienti, e probabilmente continueranno a esserlo finché non arriverà un regista con le capacità e il coraggio di sovvertire IT e farne qualcos’altro, come fece Kubrick con Shining (scontentando, com’è noto, lo stesso King, ma del resto il buon Steve non dev’essere un grande esperto di cinema, visto il suo apprezzamento proprio per i mediocri adattamenti di IT visti finora), ma ce ne faremo una ragione: del resto IT è un mutaforma, e risulterà dunque implicito anche tollerare le sue forme meno riuscite…

Resta, in tutto questo, un nodo: se King è stato così decisivo per il nostro immaginario – non si proferirà un’eresia se lo si definirà, almeno a livello di immaginario, come l’autore più influente del secondo Novecento –, ecco che mentre ci apprestiamo a guardare Welcome to Derry resta un po’ di amarezza per il Nobel appena mancato, che quest’anno pareva più vicino di altre volte. Ma si sa, nonostante tutto l’horror non è considerato ancora una cosa “abbastanza seria”, e dicendo questo ci sia permessa anche una frecciata: se pure il suo editore Sperling & Kupfer lo prende così poco sul serio da affibbiargli una serie di copertine fatte con AI per le sue nuove riedizioni (il primo a segnalarlo è stato il fumettista Roberto Recchioni, poi è partito l’inevitabile e giusto polverone), come possiamo sperare che lo prenda sul serio l’Accademia Svedese?

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