Il punto

Foa, «ecco perché l’ideologia fondante di Israele è fallita»

La storica italiana analizza la crisi del sionismo: «Ciò che sta accadendo oggi non ha nulla a che fare con l’idea originale»

  • 39 minuti fa
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Anna Foa: “Il sionismo ha fallito”- Sinodo: a che punto siamo in Svizzera e in Ticino?

Chiese in diretta 16.11.2025, 08:30

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  • Gaëlle Courtens e Chiara Gerosa
Di: Gaëlle Courtens 

«Quello che sta succedendo oggi, con questa guerra interminabile e senza regole, non ha nulla a che fare con il sionismo. È qualche cosa che parla del fallimento dell’ideologia su cui è nato Israele»: lo dice a Chiese in diretta Anna Foa, italiana, classe 1944, nota intellettuale ebrea, docente emerito di Storia moderna all’Università “La Sapienza” di Roma, autrice del volume Il suicidio di Israele (ed. Laterza, 2024), vincitore del Premio Strega 2025 per la Saggistica, giunto alla quindicesima ristampa.

In che termini questo bagaglio ideologico - nato formalmente in Svizzera, a Basilea nel 1897 - si è modificato nel corso della storia? Anna Foa preferisce parlare di «sionismi», al plurale. Oggi chi critica Israele per la sua politica genocidaria contro i palestinesi si dice antisionista.

Ma cos’è esattamente l’antisionismo? In questi mesi si sono moltiplicati i termini: accanto agli antisionisti ci sono i neo-sionisti e i post-sionisti. Il sionismo va aggettivato? Anna Foa aiuta a districarci in questa giungla terminologica e ricorda che alla base il sionismo nasceva come un’ideologia di appropriazione di un’identità statale, alla stessa stregua del Risorgimento italiano. Nell’arco della storia assumerà vari aspetti e varie forme. «Dire che ci sono stati molti sionismi è utile per evitare che il sionismo diventi solo una parolaccia, perché io non credo che sia una parolaccia», dice Foa citando per esempio il movimento del Brit Shalom, il Patto per la pace, nato esattamente un secolo fa e che si immaginava una storia diversa: «Ci sono stati molti sionisti che volevano una vita in comune con i palestinesi». Ciò non toglie che ci sono stati sionismi di destra, come quello nazionalista di Vladimir Ze’ev Jabotinsky (1880-1940) che oggi ha preso il sopravvento, ricorda la storica.

Per quanto riguarda il termine “antisionismo”, dice che in fondo non si riferisce tanto all’ideologia sionista, quanto piuttosto alle attuali politiche del governo israeliano. E poi c’è il post-sionismo, cioè «l’idea che il sionismo abbia esaurito la sua opera e che adesso si tratta di creare uno Stato, non solo uno Stato degli ebrei, ma uno Stato democratico per tutti, ebrei o palestinesi che siano». Guardando agli aspetti coloniali del sionismo dice: «Penso che si possa analizzare la storia del sionismo senza definirla tout-court come una storia coloniale, piuttosto bisognerebbe premere su quegli elementi che invece puntavano verso aspetti non di colonizzazione».

Non esita a parlare di una società israeliana malata, in cui i traumi del post Shoah si saldano a quelli del 7 ottobre 2023 e ora a quelli della guerra genocidaria contro i palestinesi: «È una società che sempre più ha bisogno di aiuto per curare i mali che le sono stati inflitti e che lei stessa ha inflitto ad altri. Molti se ne vanno, c’è un movimento di allontanamento da Israele che non si era mai verificato prima, soprattutto molti giovani che non vogliono allevare i loro figli in un mondo che si sta avviando verso un regime non democratico vicino al fascismo o addirittura vicino a regimi teocratici».

La studiosa sta ultimando un nuovo libro sul tema dell’antisemitismo. Partendo da una prospettiva storica, ma guardando anche all’oggi, punta il dito contro la bellicizzazione dell’antisemitismo, per cui sarebbe antisemita qualsiasi critica contro le politiche israeliane e gli effetti di quelle politiche: «Credo che tutto questo sia indegno, nel senso che si fa velo della necessità di combattere l’antisemitismo per coprire altre cose che nulla hanno a che fare con la lotta contro l’antisemitismo».

In conclusione constata che «gli ultimi due anni hanno messo pesantemente in discussione il modo in cui un ebreo si sente». Anna Foa parla di «frattura molto dolorosa», non solo per Israele ma anche per il mondo ebraico della diaspora: «È qualcosa che ha rotto amicizie e spaccato comunità». E alla domanda se crede che in Medioriente un futuro di pace sia possibile risponde: «Dobbiamo sforzarci in tutti i modi di pensarlo possibile, perché è l’unico modo in cui possiamo lottare affinché la pace si realizzi».

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