Ci sono libri che alla loro uscita sembrano non solo attualissimi ma anche destinati a durare nel tempo, che poi invece provvede a farli scivolare nell’oblio. Ci sono libri, invece, che alla loro uscita sembrano meteoriti provenienti da un altro sistema planetario. Col passare degli anni, però, proprio questi libri acquistano uno spessore e un’attualità che li trasformano in classici di valore assoluto, perché colgono i dati di fondo della condizione umana e incidono nel ventre molle delle sue miserie. Aveva insomma ragione Stendhal quando, pressappoco nel 1840, aveva detto di scrivere per gli «happy few», i «pochi fortunati» che avrebbero letto e ammirato le sue opere «intorno al 1900», a distanza di decenni dalla sua morte.
“Incubo ad aria condizionata” di Henry Miller (o il “Molinari Enrico di New York”, come lo aveva simpaticamente ribattezzato il suo traduttore italiano Luciano Bianciardi appartiene a quest’ultimo novero di opere letterarie. Scrittore “maledetto” e amatissimo, già autore dei due “Tropici” e plasmato da una lunga e avventurosa permanenza in Europa, Miller scrisse questo libro tra 1939 e il 1941, al ritorno negli Stati Uniti. Il suo intento era quello di spingersi fino alle radici più profonde dello spirito e della mentalità americana, di descrivere la natura e la cultura di un paese sterminato, che sembrava offrire a chiunque («go west, young men») tutte le chances di un pieno sviluppo umano in una società tollerante, liberale e democratica.
Ma il lungo viaggio, nel corso del quale Miller incontrò i più disparati esempi del cosiddetto “american way of life”, si rivelò una cocente delusione, un incubo ad aria condizionata, dove per “incubo ad aria condizionata” bisogna intendere la sensazione di claustrofobia e soffocamento indotta da una società regolata da meccanismi anonimi e ormai priva di tratti realmente umani, come ha osservato lo stesso Miller nella prefazione al volume, poi pubblicato nel 1945: «Non si fa un mondo nuovo cercando solo di dimenticare il vecchio. Un mondo nuovo lo si fa con uno spirito nuovo, con nuovi valori. Può darsi che il nostro mondo sia cominciato così, ma oggi è una caricatura. Il nostro mondo è un mondo di cose. Ciò che temiamo di più, di fronte all’incombente débâcle, è che saremo costretti a rinunciare ai nostri aggeggi, alle nostre carabattole, a tutte le piccole comodità che ci hanno dato tanta scomodità».
Attualissimo ma insieme di una vibrante classicità, “Incubo ad aria condizionata” rimane uno strumento imprescindibile per capire com’erano gli Stati Uniti alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, ma è non meno fondamentale per capire cosa sono diventati in seguito, dopo la seconda guerra mondiale, trascinando con sé la vecchia Europa crollata sotto il peso dei due conflitti mondiali e destinata a diventare, come dirà il mitteleuropeo Gregor von Rezzori (che esattamente mezzo secolo dopo Miller compì pressappoco lo stesso viaggio da “straniero nella Terra di Lolita”), una “second hand America”, un’“America di seconda mano»”
L’incubo ad aria condizionata è fatto in buona parte delle eterne contraddizioni umane, che Miller incontra un po’ ovunque nel corso del viaggio, ma è fatto anche e soprattutto di un falso o comunque malinteso progresso venduto come il massimo raggiungimento della Storia. E’ davvero impressionante, ad esempio, leggere le pagine nelle quali Miller parla di un inquinamento ormai fuori controllo, ma è ancora più impressionante leggere la sua lucidissima e profetica analisi dello strapotere dei mass-media, che anestetizzano l’essere umano con la quotidiana valanga di notizie più o meno attendibili e imposte dal potente o dai potentati di turno, ma anche con intrattenimenti idioti, pubblicità assurde e volgari incitamenti al consumo: «Siamo abituati a considerarci un popolo emancipato, diciamo di essere democratici, amanti della libertà, liberi da pregiudizi e dall’odio. Belle parole, piene di nobiltà e di idealismo. In realtà, siamo una turba volgare e aggressiva le cui passioni sono agevolmente mobilitate da demagoghi, giornalisti, ciarlatani della religione, agitatori e roba simile. Chiamarla una società di popoli liberi è una bestemmia».
I mass-media, in quel periodo, erano ancora agli inizi, eppure Miller, soprattutto in uno splendido passo del capitolo intitolato “Buone nuove, Dio è amore!”, aveva perfettamente intuito lo sviluppo e la nefasta influenza che avrebbero esercitato sullo spirito e i comportamenti degli esseri umani: «Torniamo dai nostri affari e prendiamo la droga che è di gran lunga peggiore dell’oppio o dell’hashish, vale a dire i giornali, la radio, il cinema. La vera droga ti dà la libertà di sognare i tuoi sogni; quella americana ti costringe a inghiottire i sogni perversi di uomini la cui sola ambizione è conservare il proprio posto senza riguardo per ciò che gli si chiede di fare. La cosa più tremenda dell’America è che non c’è scampo alla macina da mulino che abbiamo creato. Non c’è un solo intrepido campione della verità nel mondo editoriale, né una società di produzione cinematografica dedita all’arte anziché ai profitti». Basta sostituire la parola “America” con “Occidente”, oppure “mondo civilizzato” e “società avanzate”, per avere un quadro preciso di quanto stiamo drammaticamente vivendo quasi un secolo dopo. In un bordello, dice Miller, non ci sono verginelle. Si può forse dargli torto?
La presenza pervasiva dei mezzi di informazione/comunicazione e delle agenzie pubblicitarie (oggi possiamo aggiungere i cosiddetti “social media” e i loro surreali algoritmi) crea una subdola, strisciante nonché pericolosissima macchina del consenso, fintamente democratica, che ingloba e metabolizza ogni forma di dissenso e la rende funzionale alla gestione, all’esercizio e al mantenimento del potere: le opinioni prefabbricate e le esigenze fasulle create ad arte dalle agenzie pubblicitarie vengono vendute e smerciate ai lettori-consumatori come libere scelte, il linguaggio si banalizza e si riduce a un informe balbettio di parole d’ordine o di slogan intercambiabili, che ottundono le coscienze in quello che Giovanni Arpino, in una delle sue “Lettere scontrose”, definirà poi «il dolce strazio collettivo».
Miller individua e prefigura con gelida concretezza la normalissima e in fondo banale catastrofe della società dei consumi e dei bisogni indotti, dove tutto è in vendita e il relativo diventa assoluto, nel segno di una diffusa quanto ottusa omologazione degli interessi, delle passioni, delle abitudini, degli stili di vita, perfino dei codici etici, che infatti sono completamente saltati insieme al principio di non contraddizione, presupposto di ogni ragionamento con pretese di logicità. Il singolo individuo scompare quindi nella massa anonima e indifferenziata, che in quanto tale risulta facilmente manipolabile: la «maledetta maggioranza» che «ha la forza ma non la ragione», come l’aveva definita Ibsen in “Un nemico del popolo”, alcuni decenni prima di Miller. Viene anche da pensare alle parole del compianto Gianni Celati alla fine di un altro viaggio nell’alienazione, nella Valle Padana degli anni Ottanta, poi descritto in “Verso la foce”: «Ci hanno mescolato le anime, e ormai abbiamo tutti gli stessi pensieri».
La conseguenza è la “monotonizzazione del mondo”, come l’aveva definita nel 1925 Stefan Zweig, una sorta di totale appiattimento già descritto e denunciato nel diciannovesimo secolo da Tocqueville, un autore che non a caso ricorre molto spesso, più o meno sottotraccia, nelle pagine di Miller. E’ un incubo, però l’aria è climatizzata; l’aria è climatizzata, però è un incubo: sono gli estremi di una dialettica malata, disperata e disperante. Il profetico Miller, da parte sua, l’ha sintetizzata in una frase che ha il retrogusto della condanna: «I ciechi guidano i ciechi: è il sistema democratico».