Per il Metropolitan Opera House di New York (anche noto come Met) gli ultimi 5 anni sono stati assai turbolenti. Dallo scoppio della pandemia il tempio della lirica USA ha affrontato una serie di traversie finanziarie che l’hanno portato sull’orlo del fallimento, vuoi per scelte artistiche non sempre felici, vuoi per sostegni economici che sono venuti meno.
Un bel po’ di ossigeno è arrivato dall’Arabia Saudita nella forma concreta di 100 milioni di dollari, elargiti grazie all’intervento congiunto di Saudi Music Commission e Royal Diriyah Opera House, gigantesca struttura che sarà inaugurata nel 2028. Questa iniezione di fondi dovrebbe garantire al Met stabilità finanziaria fino al 2032.
Per il direttore Peter Gelb «lo scambio culturale tra paesi è essenziale sul piano umano, e questo progetto di collaborazione offrirà anche nuove vie di sostegno significativo per il Met». Un vero e proprio salvataggio con risvolti sotto il profilo artistico, considerato che dopo la sua apertura, ogni anno nel mese di febbraio, il Met si trasferirà nella nuova Opera House del Regno per presentare le sue opere in residenza.
E così si torna a parlare di un paese arabo che investe nell’arte, nella cultura e nell’intrattenimento occidentali. Musica, teatro, moda (e calcio) sono alcuni dei settori in cui, soprattutto negli ultimi anni, l’ingresso di finanziatori da paesi del Golfo si è fatto notevole. Decine di miliardi di dollari provenienti in larghissima parte da Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar, sotto lo sguardo preoccupato di una parte dell’opinione pubblica, che vede annidarsi dietro queste operazioni cultural-washing e pericoli per la libertà di espressione.
Il cultural-washing è, detto in soldoni, dare una passata di cultura per smacchiare un’immagine internazionale non immacolata. «Tutti sappiamo che non è un paese che brilla per diritti civili» osserva a proposito dell’Arabia Saudita Francesco Zanibellato, professore alla Georgetown University di Washington DC. Secondo lui i sauditi possono «pulire la loro immagine con queste iniziative artistiche, pagandole. Sono gli unici che almeno investono in cultura, però hanno le loro ragioni tutte interne per farlo». Ragioni non solo reputazionali: «Tutti questi paesi mediorientali hanno l’economia che dipende moltissimo dal prezzo del petrolio, il loro PIL dipende da quanto scende o sale, quindi cercano di diversificare la loro economia attirando turisti» fa notare Zanibellato.
L’arte è un punto chiave della Vision 2030, il programma di trasformazione dell’Arabia Saudita varato nel 2016. Voluto dal principe ereditario Mohammed bin Salman, racchiude la strategia per sganciare il paese dalla dipendenza dal petrolio e rendere la sua società più aperta. Eppure, a dispetto dei proclami, i critici temono che i denari riversati nella cultura occidentale potrebbero limitare la libertà di espressione, portando direttori e artisti a evitare temi urticanti per la suscettibilità degli investitori come i diritti LGBTQ+, la religione o la critica politica.
Nel commentare questi timori, Elizabeth Norberg-Schulz, soprano e professoressa di canto lirico che il palco del Met lo ha calcato, porta la sua esperienza: «Ho insegnato in Libano, che è un paese arabo molto occidentale: ho insegnato canto al Conservatorio, ho lavorato con solisti e coro del Teatro dell’Opera di Beirut su opere arabe» racconta, «e ho visto un entusiasmo e un calore umano straordinario del popolo. Il popolo crede nella musica classica, vuole farla, si vuole esprimere proprio attraverso il canto, la voce».
Norberg-Schulz si oppone alle chiusure aprioristiche, perché i paesi arabi «hanno radici artistiche profondissime, una storia lunghissima. Io sono sempre aperta ai ponti, alle collaborazioni, e non troppo a questo isolazionismo che fa la politica oggi che dice: “Tu paese hai fallito, quindi ti isolo”».
C’è poi, in conclusione, una questione di rapporti fra le culture da affrontare. Perché l’importazione di quella occidentale potrebbe relegare ai margini secoli di tradizioni mediorientali. Il professor Zanibellato non vede questo rischio: «Non credo che questi paesi vogliano mettere da parte la loro cultura per prendere l’opera e la musica occidentale. Come molti paesi che si stanno affacciando sull’orizzonte internazionale, puntano ad avere quel capitale simbolico dai paesi che lo detengono e lo prendono nei loro paesi per mostrare che sono capaci di produrre le stesse cose».

Ai Sauditi piace la lirica
Voi che sapete... 03.10.2025, 16:00
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