«Sono quelle persone maestre che però non vengono in Terra con la sfacciataggine dei maestri, che vivono più recondite, nascoste, vivono più dietro le siepi della vita. E sono quelle persone che in qualche modo ti fanno sentire al sicuro». Così Gio Evan descrive le figure che hanno ispirato il suo ultimo romanzo, Le chiamava persone medicina (Rizzoli). Il 37enne cantautore, scrittore e poeta lo ha sfogliato a Tra le righe.
C’è un passaggio del libro, un dialogo fra i due protagonisti, in cui nonna Adele ricorda a Marelargo che «Quando ci si affida alla vita, nessun incontro va storto». Trattandosi di una storia basata sul suo vissuto, Gio Evan indica le persone che lo hanno aiutato a trovare la bellezza nella vita: Adele e quegli incantatori, come li chiama lui, che gli hanno trasmesso positività: «Sarà che ho viaggiato molto e ho avuto la fortuna di vedere tanti paesaggi, tante culture, tanti uomini e io ho sempre trovato i buoni». Incontri per lui frutto non della fortuna ma di una «intelligenza spaziale» che mettono in evidenza come a questo mondo ci sia sempre spazio per la meraviglia: «Non vorrei che le nuove generazioni si educassero solo al terrore, perché altrimenti c’è solo morte, non c’è più vita».
Il suo scrivere, che si declina in più forme espressive, trova corrispondenza nel suo essere: «Forse scrivo per mettermi in dialogo con tutte le versioni di me stesso che ho conosciuto. Io non credo in un solo essere, un sé stesso. Quando dicono: “Io sono me stesso” com’è possibile che ne è solo uno?» si chiede, dato che secondo lui «siamo coabitati dall’esistenza, siamo partecipi all’universo e non un essere a sé stante. Quindi qualsiasi forma di arte consente queste connessioni, consente questi dialoghi e questi aggiornamenti, ci si aggiorna di noi. Mi capita di scrivere cose che ho vissuto ma anche cose che sto per vivere. A volte la mia scrittura è un passo avanti al mio destino, a volte una mia canzone mi sta dicendo cosa diventerò, come diventerò o chi devo diventare».