E la “Y” di uno dei supergruppi più celebri della storia della musica popolare, quei Crosby, Stills, Nash & Young (CSN&Y) che con due album e una leggendaria performance a Woodstock entrano per sempre nella storia, quella con la S maiuscola.
Lui, la nostra “Y”, è canadese trapiantato nella assolata California che aveva la forza di infiammar gli animi e scuoter le coscienze. E vantava già un pedigree di tutto rispetto: oltre ad aver fondato una manciata di gruppi, tanto in Canada quanto negli States, tra i quali i Buffalo Springfield con Stephen Stills (la futura “S” del super combo). E aveva già licenziato due album a suo nome. Col quartetto codifica quel sound che passerà alla storia come “West Coast”: Déjà Vu è considerato tra gli album più iconici della musica a stelle strisce, vero manifesto di quella koiné, di quel linguaggio artistico e culturale comune che dalla California soffia sull’Occidente. È il loro unico album al netto di un live strepitoso, quale è 4 Way Street, e un bootleg. Successivamente, negli anni ’80 e ’90 ne pubblicheranno un altro paio che non avranno però la portata degli esordi.
Ma ciò che conta è che lui, la nostra “Y”, all’appuntamento con gli anni ’70 è davvero in uno stato di grazie. In quel decennio che raccoglie l’eredità della contro cultura giovanile, del movimento hippie e studentesco, dei Beach Boys e della psichedelica lisergica, Neil Young pubblica una manciata di veri e propri capolavori. Album epocali quali After the Gold Rush, Harvest e la cosiddetta “trilogia del dolore” - che per gli americani è la “Ditch Trilogy”- che si manifesta con Time Fades Away, On the Beach e Tonight’s the Night. Album anche strazianti, disperati nei quali il nostro si macera nell’oscurità imputabile all’eroina gli ha spazzato via amici cari. Riflettendo al contempo sulla fine di un’epoca, di quel sogno che soffiava sulla “Woodstock Nation” per intenderci.
E su, su in camminando in questo decennio fino allo straordinario Rust Never Sleeps. Uno di quei dischi da portare sulla classica isola deserta. Perché contiene la moltitudine poetica e sonora di Neil Young, indiscusso maestro cesellatore di struggenti ballate acustiche come di intense, sporche e vigorose cavalcate elettriche. Quelle che l’hanno definito quale padrino del grunge. Lo conosceva bene ad esempio Kurt Cobain, che nella sua ultima lettera, rivolgendosi alla moglie e alla figlia, scrisse: «I don’t have the passion anymore, and so remember, it’s better to burn out than to fade away». Citando dunque il nostro e la sua celebre «Meglio bruciare che spegnersi lentamente» utilizzata quale metafora della sua incapacità di continuare a vivere con la stessa intensità di un tempo.
Neil Young è un autore che abbiamo anche amato per l’indefesso impegno sociale e politico profuso a piene mani nel corso della sua leggendaria carriera. Attraverso la canzone Cortez the Killer critica il colonialismo europeo che ha distrutto la civiltà americana originaria, argomento molto caro al nostro. Così come in Alabama attaccava il razzismo latente nel sud del paese, mentre Ohio è un brano antimilitarista scritto di getto dopo la morte di quattro studenti che protestavano contro l’intervento americano in Vietnam, che stava lacerando le coscienze del paese. O ancora Pocahontas, messaggio volto a denunciare l’annientamento dei nativi americani e della loro cultura. Young è uomo che si spende anche quale semplice cittadino, sempre sensibile alle derive e alle storture della società. Di battaglie ne ha combattute molte: a favore dei diritti dei popoli indigeni, attaccando il governo canadese per aver permesso alle compagnie petrolifere di violare i trattati stipulati con gli indiani della Athabasca Chipewyan First Nation, per i giovani disabili.
A 80 anni Neil Young, quest’anno tra l’altro headliner al Glastonbury Festival, ha ancora la voglia e la forza di dare una scossa al mondo stigmatizzandone le ingiustizie, le derive e gli orrori. Ed è passione, rabbia, impegno, sogno. Vita, soprattutto, di cui è goloso e che sgorga incessantemente dalla sua anima, dalla sua musica, dalla sua eccellente poetica.
Non fosse che per questo, ma soprattutto per la qualità della sua opera Neil Young è tra i cantori più importanti del ‘900, tra i più amati, venerati e omaggiati anche dalla comunità artistica. E di grandi dischi l’artista ha seminato ogni decennio che ha attraversato.
Nella sua calligrafia, a volte lunare, altre capace di frullare rabbia e bellezza, si scorgono sincerità e immediatezza nelle quali non si fatica a riconoscersi. Una scrittura archetipica, come hanno scritto: «in cui potersi riconoscere e tornar a far riferimento». Anche quando nel 1982 spiazza tutto e tutti pubblicando, lui rocker e delicato folksinger, Trans, un album inzuppato nell’elettronica dove spadroneggiano i sintetizzatori, la drum machine e una voce filtrata da androide. Lui intuisce nel 1982, neanche fosse un novello Orwell, la portata e gli effetti che i computer e la tecnologia avranno sulle nostre vite, disumanizzandole. Ma è solo uno degli esempi della assoluta libertà artistica del nostro, che si affranca da ogni possibile paragone con altri “giganti” della musica. Capace di assumere forme differenti, di coniugare ideali pacifisti alla rabbia causata dalle ingiustizie, di imbracciare una Martin D45 per tessere melodie fatate così come incendiare palchi e anime con la sua “Old black”, una Gibson Les Paul Goldtop che dipinse di nero e non abbandonò mai più. Quella per intenderci che urla e si contorce in Like a Hurricane.
Molti artisti della sua generazione, ma anche di quelle successive, tendono ad addomesticarsi con l’incedere del tempo. Lui no, è incapace di invecchiare. Come la sua musica, la sua poetica e la sua voce che a 80 anni non conosce la polvere della ruggine. L’energia che infonde e l’impegno che profonde ovunque ponga il suo sguardo lo confermano. A cominciare dalla vita familiare e dai tre figli di cui i primi due maschi sono nati con una forma di paralisi cerebrale, la terza invece soffre di epilessia, malattia con la quale lo stesso artista convive da sempre. Nella sua biografia (Il sogno di un hippie) Young ne parla da padre amorevole e presente, raccontando oltre al rapporto speciale che ha coltivato con loro delle difficoltà, degli errori e delle sofferenze che la vita non gli ha certo risparmiato. A partire dalla polio contratta a sei anni che lo costrinse a imparare a camminare di nuovo. Ed è commovente leggere di un ottuagenario che progetta il futuro, lo semina di idee e sogni, artistici e di vita. E con immutata passione.
Mito vero, icona del rock, anzi della musica più in generale, poeta e attivista, visionario capace come pochi di legger la realtà, noi tutti, volenti o nolenti abbiamo un suo tatuaggio virtuale nella memoria. E nel cuore. A fronte della bellezza che senza mai risparmiarsi ha irrorato su ognuno di noi.
Auguri Campione
Millestorie 12.11.2025, 11:05
Contenuto audio