Musica e letteratura

Non è star sopra un albero: la libertà secondo i cantautori

Da Petrarca a De André, Guccini e Gaber: come è affrontato il tema nei testi della canzone d’autore italiana

  • Oggi, 14:31
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Francesco Guccini

  • Imago/Zuma Press Wire
Di: Lucrezia Greppi 

La libertà la pensiamo così: una corsa lieve verso un orizzonte senza confini. Piedi nudi sull’erba, natura intorno, nessuna meta. Un’immagine, un po’ bucolica, che inseguiamo tuttora nelle nostre agognate vacanze, seppur in paradisi sovraffollati. Brevi pause che ci concediamo prima di riprendere quella nevrotica corsa contro il tempo che chiamiamo “modernità”. Il piedino scalzo oggi indossa una comoda scarpetta, per schizzare da una parte all’altra della città, schivare tram, macchine e persone, raggiungere il luogo di lavoro e poi ritornare a casa, dove ci attendono milleuno oggetti utili a inebetirci con i loro bagliori. Simboli fluorescenti del “progresso” che sempre più ci allontanano dai paesaggi incontaminati dove ieri si poteva persino pensare e condurre, addirittura, un’esistenza autentica. Città e campagna, alienazione e libertà: un binomio antico che dal Trecento arriva fino ai cantautori del Novecento. 

A non andare pazzo per la vita cittadina era già Francesco Petrarca, che in una lettera all’amico Philippe de Cabassole, contenuta nel primo libro del De vita solitaria, elenca le “gioie” della società. Esser «spinto, urtato, influenzato, incalzato», «trascinato a un banchetto mentre preferiresti aver fame, costretto a parlare mentre brameresti star zitto, o salutato in un momento inopportuno, o afferrato e trattenuto agli angoli delle strade», «premere sempre ed esser premuto fra uno stuolo di salutatori». La via per «non disimparare l’umanità in mezzo agli uomini», evitare di «prendere in odio ogni cosa» e onorare il messaggio di san Paolo nella Lettera ai Romani – «nessuno di noi vive per se stesso» – la trova nella vita semplice della campagna. In pace e in solitudine, da questo speciale «posto di vedetta» l’animo riesce a innalzarsi «tra le cose celesti» e sentirsi in sintonia con l’universo. 

Un pensiero assai simile a quello espresso, molti secoli più tardi, da Fabrizio De André nel suo «elogio della solitudine» a premessa dell’album Anime salve: un «discorso sulla libertà» che, come chiarisce il cantautore ligure, vuol essere tutt’altro che un panegirico dell’anacoretismo o dell’eremitaggio. «Quando si può rimanere soli con se stessi», spiegava, «io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante» – costituito dai nostri simili e da tutto l’universo, «dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle» –, meditare sui propri problemi e su quelli degli altri. In particolare, De André si preoccupava dei «servi disobbedienti alle leggi del branco» e di chi viaggia «in direzione ostinata e contraria» col suo marchio di «speciale disperazione», a cui dedica una Smisurata preghiera. Chi non è avvezzo alla «ginnastica d’obbedienza» (Nella mia ora di libertà), non si adatta «a portar le catene» e non si contenta di uno stipendio da fame, e quindi bighellona, guarda la luna e «dorme al giorno quattordici ore», è bollato come Fannullone.

Non è l’ideale dell’otium letterario cui mira Petrarca, ma nemmeno un vuoto girovagare: è piuttosto un atto di resistenza al culto dell’apparenza coltivato dalla «gente bene» di cui parlerà anche Francesco Guccini in Il sociale e l’antisociale. Qui l’outsider che odia «ogni ipocrisia morale», per protesta dichiara «non ho voglia di far niente», in barba a galoppini e festaioli mondani, da cui vuol fuggire, per esser sicuro, migrando su «un’isola deserta». La bandiera della vera libertà però sventola tra i boschi dell’appennino, a Pavana, dove quel «campagnolo inurbato» ritrova «quattro soldi di civiltà» (Addio), scampo dalla «velocità di macchine a motore / follia di folla e di rumore» per risentire «ritmi più lontani», «di bestie, legni, suoni umani», e riparo dall’urbana «giostra di figure e suoni / di luci e schermi da illusioni» (Black-out). Circondato dalla natura ed «oltre le mura delle città» intona un inno alla libertà: un invito a volare «alto nel cielo» come un «uccello», ad abbattere quelle barriere che ci impediscono «di cercare il sole»: siano esse catene sociali o «il peso della vita» (La tua libertà). 

Un messaggio condiviso da Giorgio Gaber, che esortava a «non aver paura del volo» e a ricercare La leggerezza, che non è superficialità né sterile isolamento, ma un sano relazionarsi con gli altri. Per lui La libertà, com’è noto, «non è star sopra un albero, è partecipazione». Al di là del popolare ritornello, il cantautore milanese critica sia chi si isola («in casa ti allontani dalla vita, dalla lotta e dalle bombe» dice in La strada) sia i falsi impegnati, per moda, conformismo (come i “ribelli” Polli d’allevamento), noia o “istinto di sopravvivenza” (L’uomo non è fatto per stare solo, per questo talvolta si associa per non scomparire a «restare a galla»). Se è vero che «un uomo non può essere veramente vitale, se non si sente parte di qualche cosa» (Una nuova coscienza) è altrettanto certo che La massa schiaccia l’individuo, essendo una «grande energia negativa» che «distrugge il sociale». Più costruttiva è invece La solitudine, che «non è mica una follia», ed anzi è «indispensabile per stare bene in compagnia» senza annullarci per compiacere gli altri. Questa «mania di solitudine e di mondo» porta il Signor G. – dice scherzosamente ne L’intossicato – a fare spola dalla campagna alla città: per disintossicarsi dal contatto col prossimo e riavvelenarsi, temendo che «non avendo gente più intorno» diminuisca il suo «odio per l’umanità».

26:25

Me, fuori di me (4. tempo)

RSI Me, fuori di me 13.12.1973, 10:30

Il cantautore milanese era tutt’altro che un fan della città. Riprende la celebre canzone di Adriano Celentano, Il ragazzo della via Gluck, con quel protagonista che invidia l’amico rimasto a giocare «a piedi nudi sui prati» mentre lui deve respirare «cemento», e ne propone anche una variazione ironica, in cui un giovane con moglie a carico perde la casa per «una legge del piano verde». In Com’è bella la città fingerà di esaltarne le meraviglie: sono zeppe di gente che lavora e produce, piene «di strade e di negozi e di vetrine piene di luce», con «réclame sempre più grandi», «grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più». E non è forse rilassante girovagare tra le «urla» degli automobilisti e concerti di «clacson»? (E giro, e giro). Una corsa contro il tempo, al ritmo impazzito della società moderna, che produce degli automi sgangherati: c’è Quello che perde i pezzi, l’essere iper-razionale che usa solo la testa e finisce per salutare le parti inutilizzate del suo corpo; il nevrotico con Il tic, l’operaio che replica i movimenti meccanici della fabbrica; e l’uomo-robot de La corsa: «ad ogni comando mi muovo di scatto», «non ho tempo libero, ma in fondo conviene, mi rende di più» dice felice. Gaber allora lo incoraggia: «dai forza continua la corsa che fai, che vale di più della vita». Il motto è sempre quello de L’ingranaggio: «lavorare lavorare lavorare / e continuare a lavorare lavorare lavorare / e non fermarsi mai».

Una maratona folle e affollata, in cui si rischia di tagliare il traguardo solo per dire: «sono a pezzi, non so più chi sono» (Cerco un gesto naturale), «perdo troppi pezzi», «non mi ritrovo più» (La solitudine). Per questo non resta che imparare a restare saldi, in un mondo che accelera senza tregua e che da sempre mette alla prova chi osa andare controvento. 

54:57

Francesco Guccini eterno maestro

Un' ora per voi 15.06.2025, 13:00

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