La pizzica, cuore pulsante della tradizione pugliese, non è solo una danza: è memoria, rito collettivo e voce di un passato che continua a dialogare con il presente. Oggi, il suo ritorno sulle scene rappresenta un’opportunità preziosa per riscoprire canti, gesti e simboli che raccontano l’identità di un territorio. Ma se recuperare le radici è fondamentale, la vera sfida è evitare che questa rinascita si riduca a una semplice operazione commerciale o a una versione stereotipata di ciò che era.
Ma quali sono le origini della pizzica? E davvero questo genere è legato soprattutto all’universo femminile, come suggerisce il nostro immaginario?
«Se parliamo della musica, della danza, della cura, quindi del tarantismo in senso stretto, noi osserviamo che c’è una prevalenza femminile, soprattutto in Puglia», commenta Vincenzo Santoro, scrittore, ricercatore e profondo conoscitore delle culture popolari del Sud Italia, a Grand Bazaar. Ma non è sempre così. In Sicilia, ad esempio, le testimonianze riguardano esclusivamente uomini, e in Spagna la prevalenza è addirittura maschile.
Questa varietà di contesti si riflette anche nella natura stessa della taranta, che ha nell’improvvisazione uno dei suoi tratti più affascinanti. Santoro ricorda un’esibizione di Niceta Petrachi, tra le più grandi interpreti della pizzica: se le avessero messo il microfono davanti mezz’ora dopo, «avrebbe cantato un’altra sequenza di versi», completamente diversa.
Questa libertà creativa si intreccia con un altro elemento imprescindibile: la danza. È impossibile pensare alla pizzica senza evocare il movimento del corpo, che in origine aveva il valore di un rito. Il tarantismo - conseguenza del presunto morso di un ragno che provocava crisi isteriche - si impossessava del corpo, e attraverso la danza bisognava liberarsene, persino schiacciarlo con il piede. Era una sorta di «competizione con la taranta che ti arriva addosso e tu devi fare di tutto per tirartela fuori, senza però darle troppo fastidio», spiega Santoro.
Ma questa dimensione rituale, così potente, conosce un declino nella prima metà del Novecento: l’Illuminismo smaschera le credenze legate al genere, a partire dal presunto morso nocivo del ragno, e il tarantismo diventa simbolo dell’arretratezza del Meridione. Negli anni ’70, però, avviene un cambio di rotta: la tradizione viene recuperata da un movimento di attivisti culturali, intellettuali e musicisti, dando vita a quello che oggi definiamo “folk revival”.
Questo revival della pizzica porta però con sé il rischio di banalizzazione e commercializzazione, evidente in manifestazioni come La Notte della Taranta, che negli ultimi anni ha ospitato artisti lontani dal genere. «È una sterzata verso una modalità molto commerciale che ha suscitato enormi polemiche», evidenzia Santoro, che rileva come «quest’anno ci sia un deciso cambiamento in direzione contraria». Tra i più critici, il gruppo Aramirè, che invita a usare la musica anche come strumento di denuncia sociale.
Parallelamente, cresce una rivalutazione della Puglia come laboratorio musicale: «Sono stati messi in campo degli strumenti di sostegno al movimento musicale. Come per esempio Puglia Sounds, un’agenzia regionale che si occupa non solo di organizzare festival ma soprattutto di promuovere gli artisti e fargli fare formazione», commenta Santoro.
Ma oggi possiamo ancora parlare di pizzica autentica? Santoro è ottimista, seppur cauto: «Ci sono musicisti che sperimentano, scrivono, contaminano. A volte sono cose interessanti, a volte meno. È ritornata fortemente la pratica dal basso di persone che senza amplificazione si riuniscono, suonano e ballano». Il dato più significativo è proprio questo: la musica e la danza sono tornate a essere una pratica quotidiana e condivisa nella comunità. La tradizione diventa così non solo un ponte verso il passato, ma anche un modo per ritrovare connessioni tra di noi.
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