L’assenza degli Stati Uniti alla Conferenza sul clima a Belém, in Brasile, pesa come un macigno sui lavori. Gli USA sono tra i principali responsabili del riscaldamento climatico del pianeta. Il presidente statunitense Donald Trump, ancora di più rispetto al suo primo mandato, ha voltato la faccia alle energie rinnovabili per tornare a puntare sui combustibili fossili: gas, petrolio e carbone. Il nostro Radiogiornale ha intervistato sul tema Barry Rabe, professore di politiche climatiche presso l’Università del Michigan.
L’Amministrazione Trump ha di fatto boicottato la Conferenza sui cambiamenti climatici di Belém. Che messaggio manda la Casa Bianca al resto del mondo e quali sono le conseguenze di questo disimpegno?
“La decisione di non partecipare alla COP 30 con una delegazione di alto livello è in linea con quasi tutto ciò che abbiamo visto da quando è iniziata la seconda amministrazione Trump. Nel corso del suo primo mandato Donald Trump aveva già preso misure analoghe ma ora si sta spingendo molto oltre. Sul piano internazionale penso al ritiro dagli accordi di Parigi, oppure al recente tentativo di intimidire altre nazioni affinché non sostengano l’idea di una tassa globale sulle spedizioni via mare per cercare di ridurre quella fonte di emissioni. A questo si uniscono gli intensi sforzi sul piano interno per rovesciare le politiche climatiche e gli obiettivi climatici della precedenti Amministrazioni. Sommati questi due ambiti, quello multilaterale e quello nazionale, segnano una netta inversione di rotta sotto questa presidenza”.
L’inversione di rotta degli Stati Uniti sul clima apre un vuoto di leadership a livello globale che altri attori possono colmare. Il disimpegno statunitense non rischia quindi di diventare un boomerang?
“C’è evidentemente un problema di vuoto ma ritengo ci siano due cose interessanti da osservare. In primo luogo, il disimpegno degli Stati Uniti sta creando opportunità per altre nazioni, con la Cina che è in prima linea e che vuole assumere la leadership in vari ambiti. Penso allo sviluppo di tecnologie di prossima generazione, ai trasporti, alle fonti di elettricità, etc. Il XXI secolo non è più il secolo del carbone, del gas e del petrolio, come pensa l’attuale amministrazione, bensì quello di fonti energetiche alternative. E questa situazione offre pertanto alla Cina ma anche ad altri Paesi, l’opportunità per emergere. Ma c’è un secondo aspetto interessante. Negli Stati Uniti abbiamo un sistema federale all’interno del quale ci sono attori come gli Stati e le città che hanno parecchio margine di manovra nel decidere le proprie politiche energetiche. Ecco perché alla COP sono arrivati dagli Stati Uniti molti governatori e sindaci per sostituire il presidente e per far capire al mondo che nella lotta ai cambiamenti climatici ci sono forze alternative al governo federale”.
Il negazionismo della Casa Bianca sui cambiamenti climatici tocca anche altri settori, come quello importantissimo della ricerca scientifica. Anche qui, però, gli Stati Uniti rischiano di farsi sorpassare dalla concorrenza.
“Questo potrebbe essere un passo senza precedenti da parte dell’Amministrazione ma anche quello che avrà gli effetti più duraturi. Negli ultimi dieci anni, grazie alla ricerca di base fatta negli Stati Uniti, sono stati fatti tantissimi progressi in tutto il mondo nello studio del clima. Programmi di ricerca che spesso erano portati avanti in partenariato con programmi scientifici di altre nazioni. Adesso stiamo invece assistendo a un’inversione di tendenza, non solo al taglio dei fondi federali per la ricerca destinati a istituti e università, come quella in cui insegno, ma anche la possibilità che gli Stati Uniti smettano di raccogliere e condividere dati sulle emissioni. Ciò è ovviamente un invito ad altre nazioni affinché prendano l’iniziativa, penso in particolare nello sviluppo di nuove tecnologie del XXI secolo. Sono segnali che già stiamo osservando”.







