Il Sudan sta vivendo una delle crisi umanitarie più gravi degli ultimi decenni. Si stima che due anni di guerra abbiano provocato circa 150’000 morti e 13 milioni di sfollati. Il conflitto, scoppiato nell’aprile 2023, vede contrapposti i soldati dell’esercito regolare e le truppe delle Forze di Supporto Rapido (RSF), entrambe responsabili di atroci violenze contro i civili. La RSI ha cercato di fare luce su una guerra troppo spesso dimenticata dai media internazionali tramite un’edizione speciale di Millevoci durante il quale sono intervenuti Emiliano Bos (autore del reportage “Sudan, dentro la guerra in Darfur” trasmesso da Falò), il direttore del programma di Emergency in Sudan Matteo D’Alonzo e la ricercatrice ed ex consigliera politica del rappresentante speciale Unione Europea per il Corno d’Africa Irene Panozzo.
“Questa è una guerra diversa dalle precedenti, principalmente per il potere a livello centrale e con una dimensione nazionale”, spiega Irene Panozzo. “La dimensione etnica è importante ma non determinante, soprattutto in Darfur dove si è riattivato il vecchio conflitto”.
Entrare nel Paese è difficilissimo e il silenzio mediatico ha contribuito all’escalation delle violenze. Solo recentemente, grazie a immagini satellitari, sono emersi i massacri di El-Fasher, con fosse comuni e pulizia etnica. “C’è stato un lavoro certosino sui crimini commessi”, afferma Irene Panozzo, riferendosi in particolare alle analisi dello Yale School of Public Health Humanitarian Research Lab che ha pubblicato diversi rapporti basati su analisi di immagini satellitari e open-source che documentano atrocità a El-Fasher (la capitale del Darfur Settentrionale) e in altre aree del Darfur, la provincia grande come la Spagna che si trova nella regione occidentale del Paese, nel deserto del Sahara.
La situazione umanitaria sul posto è drammatica come conferma il direttore del programma di Emergency in Sudan: “Vediamo una popolazione sempre più malata, con aumento di malnutrizione e malattie. Continuano ad aumentare casi di colera, febbre dengue, malaria. L’accesso alle zone di conflitto è molto difficile e pericoloso”. L’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari ONU stima che oltre 30 milioni di persone, tra cui 16 milioni di bambini, hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria e che più di 3 milioni di bambini sono a rischio di malnutrizione acuta. Per soccorrere la popolazione quest’anno serverebbero all’incirca 3,5 miliardi di franchi (finora ne è stato raccolto poco più del 30%).

Sudan, dentro la guerra in Darfur
Falò 27.05.2025, 21:10
Le organizzazioni non governative faticano a operare. “Mandare un camion di aiuti da Port Sudan a Nyala costa 60’000 dollari”, spiega Matteo D’Alonzo. “Non potrà essere sostenibile a lungo”. La difficoltà di accesso è tale che un padre ha impiegato tre settimane per portare il figlio malato in ospedale a Khartoum, solo per vederlo morire poco dopo l’arrivo.
Il conflitto ha anche una dimensione geopolitica, con potenze esterne come Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita coinvolte. “Gli Emirati sostengono le RSF, mentre l’Egitto appoggia l’esercito regolare per legami istituzionali storici”, afferma Irene Panozzo. Questo coinvolgimento esterno complica ulteriormente la situazione, fornendo risorse per continuare il conflitto.
Nonostante tutto, la società civile sudanese cerca di organizzarsi localmente per portare aiuti. “Ci sono organizzazioni di mutuo soccorso a livello locale con leadership orizzontale chiamate Emergency Response Rooms”, spiega l’analista. “Sono un raggio di speranza in una situazione drammatica, fatte di persone in larga parte giovani che su base volontaria stanno cercando di aiutare la propria gente”.
La comunità internazionale sta provando ad intervenire. Gli Stati Uniti, insieme ad Arabia Saudita, Egitto ed Emirati, stanno tentando di mediare una tregua per un Paese dove le guerre si succedono praticamente ininterrottamente dal 1956 quando il Sudan ottenne l’indipendenza dal Regno Unito e dall’Egitto. Tuttavia, come sottolineato da Irene Panozzo, “le Rapid Forces hanno detto di sì, ma hanno continuato a combattere, mentre dal lato dell’esercito regolare per il momento c’è stato un netto no”.
In questo contesto, il lavoro delle ONG come Emergency diventa cruciale ma sempre più difficile. Il Sudan, un Paese vasto quanto un quinto dell’Europa, ricco di risorse come l’oro e strategicamente importante per il controllo delle acque del Nilo, rischia di sprofondare in un abisso di violenza e sofferenza. La comunità internazionale non può più chiudere gli occhi di fronte a questa crisi. Come conclude il direttore del programma di Emergency in Sudan: “Aiutare significa anche dare la dignità e la scelta alle persone di voler rimanere qui”.
Adattamento web: Diem








