“Lavorare con risorse limitate”. È il sottotitolo del manuale di chirurgia di guerra del Comitato Internazionale della Croce Rossa ed è anche la normalità del lavoro di due chirurghi con lunga esperienza sul terreno, Massimo Del Bene e Paul Ley, che a Prima Ora hanno raccontato il loro instancabile impegno nel curare le vittime più innocenti, i bambini. Assieme hanno creato quest’anno la fondazione War Children Hospital che ha lo scopo di curare i minori feriti, intervenendo direttamente sul campo oppure accogliendo i pazienti in Italia. Di recente, ricordiamo, anche la Svizzera ha accolto, per curarli, sette bambini feriti provenienti dalla Striscia di Gaza.
La peculiarità di questa giovane fondazione sta nel coinvolgimento diretto di due chirurghi che sono, per usare l’espressione di Del Bene, “in pensione attiva”. “Perché è quello che sappiamo fare - chiarisce Ley - e in questo campo l’esperienza ha un valore enorme e quindi sarebbe un peccato perderla, anche se fisicamente non siamo più come trent’anni fa”. Un pensiero condiviso dal collega: “Finché uno ha le forze ed è in salute, in chirurgia l’esperienza è tutto”.

I chirurghi Massimo Del Bene, a sinistra, e Paul Ley ospiti di Prima Ora
La collaborazione tra i due chirurghi è fondamentale. “Lavoriamo molto bene insieme, perché io sono un chirurgo plastico e Paul è un ortopedico”, spiega Del Bene. “Questo sinergismo esistente fra le due specialità, soprattutto in lesioni da scoppio o da traumi importanti, permette dei buoni risultati. Perché”, è l’espressione che usa il medico per alleggerire un tema drammatico, “io tappo i buchi e lui mette in asse la parte scheletrica”.
L’esperienza sul terreno del medico in capo dell’esercito svizzero
Un aspetto, quello dell’esperienza, su cui ha insistito anche Andreas Stettbacher, medico in capo dell’esercito svizzero, ma prima di tutto chirurgo, intervistato da Simona Cereghetti. La sua esperienza in Sudafrica, durante gli anni di transizione dall’apartheid alla democrazia, ha plasmato la sua visione sulla preparazione medica militare. Ricordando quel periodo, afferma: “Durante il fine settimana le persone spendevano tutto lo stipendio settimanale per ubriacarsi e quando si è ubriachi non si hanno più limiti e si commettono atti di violenza. In quei giorni c’era un continuo arrivo di moltissimi feriti.” La situazione era estrema: “Questo ritmo non lo si vive in Europa e nemmeno negli Stati Uniti. Più di 50 feriti gravissimi al giorno. Non ci sono situazioni del genere in altri posti se non in zone di guerra”.
La mancanza di medici con esperienza diretta nei conflitti, ammette il medico in capo, “per l’esercito è sicuramente uno svantaggio”. Che si cerca di colmare attraverso seminari di istruzione. L’esercito svizzero non opera, ad esempio, nella Striscia di Gaza e, ricorda Stettbacher, “sono pochi i chirurghi svizzeri che lo fanno perché sommersi di lavoro negli ospedali elvetici. Siamo quindi molto grati ai medici che servono nell’esercito e che per loro iniziativa decidono di andare in zone di guerra per imparare sul campo. Abbiamo anche contatti con chirurghi stranieri che hanno operato a Gaza e che ci spiegano le procedure di intervento e forniscono immagini di cosa succede negli ospedali”. La sanità militare sta creando i cosiddetti “Forward Surgical Teams”, gruppi che offrono una formazione approfondita in chirurgia di guerra.
“Adesso mi accontento di salvare un paziente alla volta”
Immagini delle ferite che lascia la guerra sui più deboli le ha catturate anche Ley, che è pure fotografo. A vent’anni aveva iniziato la sua attività di medico umanitario con alte aspettative: “Adesso mi accontento di un paziente alla volta, il mondo non sono riuscito a salvarlo. In alcune mie fotografie si vedono dei bambini in zone di conflitto o di guerra che rimangono bambini e continuano a giocare. Non hanno una percezione completa di quello che gli succede intorno e giocano a volte in condizioni che noi, ma non necessariamente loro, vediamo drammatiche”.
Questi scatti faranno parte di una mostra che si inaugurerà a Roma il 25 novembre, come annuncia Del Bene: “Sono gli scatti di Paul, perché oltre a essere un grande chirurgo di guerra e umanitario è anche un grande fotografo”.








