Dopo il primo incontro in Alaska fra Vladimir Putin e Donald Trump il posizionamento degli attori in campo in vista delle vere e proprie trattative per la risoluzione del conflitto in Ucraina è entrato in una fase cruciale. Nel contesto della guerra che si combatte su larga scala dall’inizio dell’invasione russa del febbraio 2022, gli Stati Uniti hanno confermato il cambiamento di ruolo, passando da primo alleato di Kiev ad arbitro al tavolo dei negoziati; la Russia ha ribadito la posizione di forza, data dalla situazione sul terreno, che ormai da oltre due anni, dalla fallita controffensiva ucraina del 2023, ha consentito un lento, ma inesorabile avanzamento su tutta la linea del fronte; l’Ucraina, sostenuta dalla cosiddetta coalizione dei volenterosi, si ritrova dunque sempre più sulla difensiva, visto appunto il mutato quadro nell’alleanza occidentale, con il fondamentale smarcamento degli USA, e le difficoltà militari crescenti, dovute tra l’altro anche alla penuria di aiuti occidentali, insufficienti quantitativamente e qualitativamente alle esigenze di difesa, e ovviamente di contrattacco, manifestate sempre da Volodymyr Zelensky.
La spaccatura nell’alleanza occidentale
Questa la cornice alla vigilia del vertice a Washington tra Trump e il presidente ucraino, appoggiato dall’Unione Europea e dai maggiori leader continentali che saranno alla Casa Bianca. La posizione di Zelensky appare però indebolita anche rispetto al passato e lo spazio di manovra sempre più stretto, per diverse ragioni. La prima è quella ovviamente della divisione dell’alleanza che ha sostenuto Kiev dall’inizio della guerra. Il cambio della guardia alla Casa Bianca ha accelerato un processo che comunque già con Joe Biden era stato di fatto avviato, con gli Stati Uniti sempre cauti nelle forniture di armi considerate potenzialmente dei game changer, dai missili a lunga gittata Atacms ai caccia da combattimento F16, e anche il predecessore di Trump ha di fatto evitato l’escalation totale con Mosca; il nuovo presidente ha azzerato il supporto militare a Kiev e da subito ha annunciato di voler mettere fine al conflitto. Il primo faccia faccia nello Studio ovale fra Trump e Zelensky a febbraio ha fatto intendere che la postura statunitense era quindi radicalmente cambiata, come confermato, seppur seguendo una linea zigzagante, nel vertice di Anchorage con Putin. Il capo di Stato ucraino ha continuato a ricevere il supporto di Bruxelles e dei volenterosi, più di nome che di fatto, visto che proprio riguardo alle consegne di armamenti, dai caccia francesi Mirage ai missili Taurus, le promesse non sono state mantenute: in realtà ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
La difesa traballante
Il secondo motivo del maggior indebolimento di Zelensky è la situazione sul campo. Dalla primavera del 2023 la Russia ha continuato ad avanzare con lenta regolarità, mettendo sotto pressione del difesa ucraine soprattutto nel Donbass e a corrente alternata nelle regioni nordorientali, di Sumy e Kharkiv. Il fronte meridionale, tra gli oblast di Zaporizha e Kherson, è rimasto invece stabile. L’operazione di Kursk, con l’invasione di territorio russo cominciata nell’agosto del 2024 e durata vari mesi, si è tramutata in una trappola che ha scoperto il Donbass e il disastro ha causato molti malumori, sia tra i vertici militari che politici. Il capo delle Forze armate Olexander Syrsky, che aveva sostituito Valery Zaluzhny all’inizio dello scorso anno, ha dovuto incassare solo sconfitte, dovendo arretrare ovunque. Le azioni di sabotaggio in territorio russo, come Spider Web, che nel maggio 2025 ha colpito varie basi aeree, sono state sì spettacolari, ma non hanno avuto alcun influsso sull’andamento del conflitto e la Russia ha in mano l’iniziativa. Le ultime settimane hanno fatto segnalare inoltre alcuni cedimenti delle linee in Donbass che potrebbero preludere anche a un collasso futuro, collegato alle evidenti difficoltà di mobilitazione. In ogni caso la situazione militare è lontana da quella prefigurata da Zelensky e dagli alleati europei che poco più di due anni fa prevedevano la riconquista dei territori occupati, Crimea compresa, tanto che nella prima formula di pace annunciata da Kiev nell’autunno del 2022 era previsto l’inizio delle trattative con Mosca, solo dopo il ritiro delle truppe del Cremlino dalle regioni del sud e dell’est del paese.
Il malumore interno
La terza ragione per cui Zelensky ha in mano meno carte di prima, è proprio il fatto che il presidente non è riuscito sul lato interno a mantenere le promesse e progressivamente ha dovuto cambiare narrazione di fronte all’evolversi della guerra. Dopo oltre tre anni di conflitto, l’elettorato sta mostrando segnali di stanchezza anche nei confronti del capo di Stato, che ha perso pezzi del suo cerchio magico e ha dovuto eseguire rimpasti governativi, militari e amministrativi tentando di tener salde le fila. Se i rating di Zelensky erano saliti dopo la lavata di testa subita da Trump a febbraio, l’effetto solidarietà pare essere ormai esaurito e il sostegno popolare si sta riducendo. L’assottigliamento della forza interna, unita alla mancanza dell’appoggio statunitense e al peggioramento costante del quadro militare pongono Volodymyr Zelensky in netta posizione di svantaggio sia di fronte a Donald Trump, che in un eventuale trilaterale con Vladimir Putin. Poco conta per Washington il ruolo dei volenterosi, la cui voce in capitolo è impercettibile. Lo scenario di fondo, con la Russia che avanza, difficilmente potrà cambiare sul breve e medio periodo e le vere e proprie trattative di pace, al di là del consenso di massima che due o tre presidenti potranno raggiungere nei prossimi incontri, si presentano in ogni caso dense di ostacoli, con dettagli tutti da discutere e definire.

L'analisi di Stefano Stefanini
Telegiornale 16.08.2025, 20:00