Per raccontare il ruolo cruciale della Turchia nel raggiungimento del cessate il fuoco a Gaza, nel processo di avvicinamento ad una soluzione del conflitto in corso tra lo Stato di Israele e il Movimento Islamico Hamas
ed, infine, nella definizione del futuro della Palestina, ho intervistato
l’accademica turca Pınar Dost, ricercatrice presso Atlantic Council (think tank statunitense fondato nel
1961, per promuovere la cooperazione tra i Paesi nordamericani e quelli
europei).
Nella videointervista che abbiamo realizzato, la signora Dost, ci racconta le ragioni per le quali la Turchia sia diventata un attore fondamentale nelle trattative in corso e del ruolo altrettanto importante che potrebbe svolgere qualora il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite fosse in grado di produrre - come di fatto ci si aspetta - una risoluzione fondante una forza internazionale di stabilizzazione da dispiegare nella Striscia di Gaza.

Pınar Dost, ricercatrice presso l'Atlantic Council, specializzata in storia della Turchia, politica estera e relazioni tra Stati Uniti e Turchia.
Come cronista non posso tuttavia omettere di includere a questo mio breve racconto il punto di vista palestinese. La mia fonte che, per ragioni di sicurezza, ha preteso il totale anonimato, vive tra la Palestina e la Turchia, e ci aiuta ad allargare la prospettiva visuale su quello che la narrazione ufficiale, sia politica che mediatica, descrive come un accordo di pace ma che i civili palestinesi, principali vittime della violenza ma estromessi dalle decisioni sul loro futuro, percepiscono come un umiliante piano coloniale di speculazione edilizia sul proprio martoriato territorio.

In molti quartieri di Istanbul, i murales esprimono supporto alla causa palestinese e ferma condanna allo Stato di Israele. Su un muro di Tophane, insieme alle scritte "Baby Killer Israel", appaiono i versi di una poesia turca che recita "Arriverà un mattino più luminoso della neve".
Il mio interlocutore inizia il nostro dialogo citando un detto arabo che dice “quando vuoi uccidere qualcosa, crea un comitato”. Il comitato, in questo caso, è formato dal gruppo di garanti del piano di pace (ovvero tutti i Paesi presenti al summit di Sharm El Sheikh, il 13 ottobre scorso), ciò che si vuole far morire è la causa palestinese, ovvero l’interesse del popolo, la sua dignità, i suoi diritti.
Sostiene poi che l’obiettivo da raggiungere - e che in effetti è stato
raggiunto - fosse la liberazione degli
ostaggi israeliani e l’avvilimento della questione palestinese ad una mera
faccenda umanitaria.

Sotto l'insegna della via Bostaniçi a Beyoğlu, uno street artist ha dipinto la striscia di Gaza.
I riflettori che illuminano Gaza e le sue macerie, lasciano così in una zona d’ombra la Cisgiordania, ovvero l’altro territorio palestinese sotto occupazione israeliana. Qui le violazioni sono costanti e l’espansione violenta e abusiva dei coloni israeliani ha reso impossibile il reale esercizio della sovranità palestinese, anche sui pochi territori rimasti sotto il loro controllo amministrativo in base degli accordi di Oslo del 1993.

Un murales rappresenta un gruppo di bambini, turchi e palestinesi, di fronte alla Moschea al-Aqsa a Gerusalemme.
La realpolitik (e le ambizioni di business) del presidente americano
e di tutti gli attori seduti al tavolo negoziale sono antitetiche a queste
considerazioni e, per avere successo, hanno bisogno di avvalersi e di imporre
una narrazione diversa; una narrazione che parla di pace in un luogo dove ancora
piovono bombe che fanno strage di civili, e che vengono descritte come piccole
conseguenze delle ultime “scaramucce”; una narrazione che parla di pace in un
luogo dove si muore di fame e dove lo Stato di Israele, esercitando una
sovranità che il diritto internazionale non gli attribuisce, ha imposto il
contingentamento, quando non il completo blocco, degli aiuti umanitari e delle
strumentazioni mediche necessarie a salvare quel che resta di una popolazione
che ha portato al collasso.
Non vi è dubbio però che questa realpolitik abbia prodotto una diminuzione dell’intensità dell’inaudita violenza a cui abbiamo assistito a partire dal 7 ottobre 2023.
Stando alle considerazioni di Pınar Dost, da cui eravamo partiti, resta quindi auspicabile una partecipazione turca
alla forza internazionale di intermediazione.
Per questo, ad oggi, non resta che aspettare l’ennesima risoluzione del Consiglio
di Sicurezza dell’ONU; ricordando comunque a malincuore che - in queste
latitudini - le risoluzioni del Consiglio non sono andate molto lontano.

La Svizzera sostiene il piano americano per Gaza
SEIDISERA 06.11.2025, 18:00
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