Analisi

L’uscita della stampa dal Pentagono e la sua libertà negli Stati Uniti

La protesta dei giornalisti accreditati per le nuove restrizione riaccende il dibattito, in un clima di crescenti tensioni tra media e amministrazione Trump

  • Oggi, 16:04
  • Oggi, 16:17
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I giornalisti accreditati al Pentagono escono in gruppo dall'edificio dopo aver consegnato i propri tesserini

  • Keystone
Di: Philip Di Salvo* 

Il video dei giornalisti e delle giornaliste che lasciano il Pentagono con gli scatoloni in mano è stato ripreso dai principali media internazionali e rappresenta un nuovo episodio di scontro tra la stampa statunitense e la seconda Amministrazione Trump, sempre più ostile agli organi di informazione. Le persone ritratte in quel video sono tutte professionisti dei media il cui lavoro era coprire le notizie provenienti dall’interno del Pentagono, la sede delle forze armate statunitensi, e documentare le decisioni prese all’interno di uno dei palazzi del potere altrimenti più impenetrabili.

All’origine di questo “walk out” vi è la decisione collettiva e quasi unanime delle principali testate statunitensi del paese di non accettare un nuovo regolamento proposto dal Segretario alla Difesa Pete Hegseth, che avrebbe, in sintesi, obbligato i media a trattare esclusivamente notizie approvate dal Pentagono stesso: le nuove regole avrebbero formalmente impedito, ad esempio, ai giornali e ai media di basare la loro copertura su fughe di notizie, leak, fonti non approvate e altri metodi al centro delle pratiche giornalistiche d’inchiesta e non solo fin dall’origine del giornalismo stesso. L’obiettivo palese dell’iniziativa era prevenire fughe di notizie ed esercitare un controllo diretto sulle informazioni a disposizione della stampa, pena ripercussioni.

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Protesta dei giornalisti americani al Pentagono

Telegiornale 16.10.2025, 12:30

A quanto si è appreso, le regole si sarebbero applicate anche a notizie non classificate o non riservate e, in caso di violazione, avrebbero comportato l’espulsione dei giornalisti dagli ambienti del Pentagono tradizionalmente riservati alla stampa. Di conseguenza, alcune tra le principali testate che operano negli Stati Uniti, come Reuters, New York Times, AFP, Associated Press, Bloomberg, Axios e persino Fox News, notoriamente più vicina a Trump, hanno preferito non firmare, e i loro giornalisti sono usciti tutti insieme, dopo aver riconsegnato i badge, in segno plateale di protesta.

La stampa negli USA ha interpretato le nuove regole come la volontà di costruire un “muro di gomma” attorno all’operato del Pentagono e, di conseguenza, un bavaglio attorno al lavoro dei giornalisti, impedendo l’accesso a fonti e informazioni di grande importanza e rendendo di fatto impossibile svolgere il proprio lavoro senza interferenze o autorizzazioni dall’alto. La giornalista Aida Alami, commentando la vicenda sulla Columbia Journalism Review (CJR), ha evidenziato come l’episodio segnali anche un nuovo clima di paura all’interno del Pentagono, osservando come la resistenza a parlare con la stampa è più forte che mai, a causa dei timori per possibili ritorsioni tra i funzionari.

Seth Stern, direttore per l’advocacy presso la Freedom of the Press Foundation, una delle principali organizzazioni dedicate alla libertà di stampa negli USA e a livello internazionale, ha definito nell’articolo di Alami per CJR le azioni del Pentagono “un classico caso di censura preventiva incostituzionale”. Il parallelo storico fa riferimento al rifiuto della Corte Suprema della censura governativa nel caso dei “Pentagon Papers”, il leak di documenti segreti sulla guerra in Vietnam rivelati nel 1971 grazie al whistleblower Daniel Ellsberg. L’Amministrazione Nixon cercò in ogni modo di bloccare la pubblicazione, fallendo però di fronte al verdetto della Corte Suprema, favorevole alla libertà di stampa. Quella decisione è tutt’ora uno dei maggiori bastioni su cui si basa la libertà di stampa negli USA, specialmente per quanto riguarda la copertura del governo.

Il giornalista di NPR Tom Bowman, per 28 anni accreditato presso il Pentagono, ha sottolineato, nel giorno in cui ha riconsegnato il suo accredito, come “firmare quel documento ci trasformerebbe in stenografi che ripetono comunicati stampa, e non in cani da guardia che tengono i funzionari governativi sotto controllo”. Di fatto, scrive, sarebbe stata una negazione stessa del giornalismo. Notoriamente, e la memoria va chiaramente al caso di Edward Snowden del 2013, le fughe di notizie non autorizzate e altre forme di giornalismo di inchiesta “adversarial” sono fondamentali per fare chiarezza sull’operato di istituzioni avvolte dal segreto come il Pentagono. È giornalismo che può creare imbarazzo per i governi, certamente, ma è giornalismo che esprime al massimo la sua funzione democratica e di trasparenza.

Questa vicenda si inserisce inoltre in un contesto piuttosto cupo per la libertà di stampa negli Stati Uniti. Da mesi, infatti, l’Amministrazione Trump tenta di influenzare i media considerati ostili e di restringere la libertà d’informazione, con azioni e provvedimenti spesso vistosi e clamorosi, come ha riassunto Il Post. Tra intimidazioni e minacce legali temerarie, la stampa negli Stati Uniti affronta oggi uno dei momenti più pericolosi della sua storia recente, mentre Trump non nasconde affatto la volontà di forzare i suoi poteri anche nei confronti del giornalismo.

*Philip Di Salvo è senior researcher e docente presso l’Università di San Gallo. I suoi temi di ricerca principali sono i rapporti tra informazione e hacking, la sorveglianza di Internet e l’intelligenza artificiale. Come giornalista scrive per varie testate.

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