Esattamente quarant’anni fa, il 14 giugno 1985 cinque Paesi dell’allora Comunità economica europea – Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo – istituivano l’area Schengen. Con l’abolizione dei controlli sistematici alle frontiere interne, prendeva forma un’Europa più concreta, fatta di vantaggi tangibili per milioni di cittadini.
Oggi, però, l’accordo mostra segni di affaticamento. Al Radiogiornale ne ha parlato Andrea Ostinelli, corrispondente da Bruxelles.
Il nome del piccolo comune lussemburghese in cui fu siglato l’accordo è diventato, nel linguaggio comune, sinonimo di libera circolazione. Oggi, l’area Schengen comprende 29 Stati, inclusa la Svizzera – che vi ha voluto aderire pur restando fuori dall’Unione Europea – e coinvolge circa 450 milioni di persone. Ogni giorno, due milioni di cittadini ne attraversano liberamente i confini interni, mentre gli scambi commerciali hanno raggiunto nel 2024 un valore di 4’100 miliardi di euro.
Schengen rappresenta una delle colonne portanti dell’integrazione europea. Tuttavia, a quarant’anni dalla sua nascita, l’area si trova ad affrontare quella che da alcuni viene definita una “crisi di mezza età”. Prima la pandemia, poi il surriscaldarsi della questione migratoria hanno portato undici Paesi – tra cui tre firmatati originali: Francia, Germania e Paesi Bassi – a reintrodurre controlli alle frontiere interne. Una misura che dovrebbe essere temporanea ed eccezionale, ma che rischia di diventare la norma.