La porta d’Europa e il fallimento delle politiche migratorie dell’UE: così è stata considerata l’isola di Lesbo, che per anni ha ospitato il campo profughi di Moria, il più grande del vecchio continente. È stato dato alle fiamme nel settembre 2020, e dei ventimila migranti che vi erano stipati, ne restano oggi meno di duemila. “Gli altri sono stati mandati nei centri di accoglienza di Atene e Salonicco, ma le loro condizioni rimangono precarie”, racconta Fabian Bracher, fondatore della ONG svizzera “One Happy Family” che da anni opera a Lesbo.
Per i migranti rimasti sull’isola è stato allestito un campo governativo, “Mavrovouni”, con ferree regole da rispettare. Molti la paragonano ad una prigione a cielo aperto, a causa delle sue recinzioni e della massiccia presenza delle forze dell’ordine. “Possono uscire solo tre volte a settimana, e durante i weekend e nelle festività sono obbligati a rimanere dentro”, racconta Fabian Bracher. E poi manca l’acqua corrente e l’elettricità spesso è assente. La ONG svizzera opera sul territorio offrendo servizi e dando anche opportunità di inserimento lavorativo ai migranti.