I sindaci dei Comuni italiani di frontiera restano alla finestra. Vogliono capire se nel 2026 arriverà davvero per intero la somma dei ristorni dei frontalieri annunciata dalle autorità svizzere, poco più di 128 milioni di euro, o se verrà decurtata. È su quel numero che, nelle ultime settimane, si è aperta una polemica politica e istituzionale tutta italiana destinata a far discutere ancora per un po’.
Da una parte c’è la lettura del Ministero dell’Economia, giudicata “restrittiva” dagli amministratori locali: ai Comuni dovrebbe essere trasferita solo una quota, 89 milioni di euro, pari alla soglia minima di salvaguardia prevista in sede di ratifica dell’accordo fiscale Italia-Svizzera. Per i sindaci quella cifra è la “soglia minima garantita”, ma il punto è la differenza: circa 39 milioni in meno rispetto all’ammontare indicato da Berna. Ed è proprio su quel “vuoto” che si è innescata la bufera.
La maggioranza di centrodestra – non solo a Roma ma anche in Lombardia – ribatte che quei 39 milioni non verrebbero “persi”, bensì riconosciuti ai territori in forme diverse, a cominciare da un’eventuale indennità aggiuntiva per alcune categorie di lavoratori impiegati nella fascia di confine. Una linea che però trova l’opposizione dei critici: per interventi di quel tipo, ricordano, esiste già un canale dedicato, un fondo alimentato dalle imposte pagate dai “nuovi” frontalieri, cioè gli assunti dopo luglio 2023, entrati nel nuovo regime fiscale.
Nel frattempo, la tensione si sposta anche sui consigli comunali. In alcuni casi sono state presentate mozioni per chiedere chiarimenti, perfino alla Svizzera, sulla possibilità che quelle risorse possano avere una “destinazione diversa”. È il caso di Luino, dove il consigliere comunale e avvocato Furio Artoni, intervistato a Seidisera, ha spiegato perché a suo giudizio una scelta di questo tipo finirebbe per entrare in rotta di collisione con accordi internazionali.
Sulla stessa linea si è mossa a fine novembre anche l’Associazione Comuni Italiani di Frontiera (ACIF). In un documento ha ribadito la necessità di rispettare l’accordo che prevede il versamento dei ristorni dai Cantoni ai Comuni di frontiera e ha richiamato anche il Memorandum d’Intesa sottoscritto con l’Associazione dei Comuni, dove viene ribadito che non devono esserci riduzioni delle risorse derivanti dai ristorni. Da qui la richiesta netta: l’intera somma, circa 128 milioni, va attribuita ai Comuni.
I 39 milioni “non resteranno a Roma”
La partita, però, è arrivata fino alla Legge di Bilancio appena approvata in Italia, attraverso i cosiddetti ordini del giorno: uno a firma del leghista Stefano Candiani, l’altro del deputato di Fratelli d’Italia Andrea Pellicini. Il messaggio politico è chiaro: quei 39 milioni, sostengono, devono restare nelle aree dove vivono i frontalieri, non “finire a Roma” né essere dispersi in interventi simbolici.
L’orientamento, a quanto emerge, è che non arriverebbero direttamente nelle casse comunali, ma verrebbero comunque destinati ai territori attraverso progetti di sviluppo economico e sociale, con l’obiettivo dichiarato di rilanciare l’economia delle zone di confine. Tradotto: si ragiona su misure che possano riflettersi anche “in busta paga” o sotto forma di sgravi fiscali, ma – insiste la Lega – con un impianto strutturale, “senza ricorrere annualmente a inutili mancette”.
In sintesi, l’unica certezza oggi sono gli 89 milioni; il resto, assicurano dal centrodestra, dovrebbe comunque trasformarsi in benefici per le aree interessate dal pendolarismo transfrontaliero. Tutto risolto? Non ancora. Perché il tema dei ristorni, insieme alla discussa “tassa sulla salute” che dovrebbe scattare dal 2026 per i frontalieri, sta entrando a gamba tesa nel dibattito elettorale. Nel 2026 molte città e paesi delle aree di confine lombarde e piemontesi andranno al voto, e salute e risorse economiche – di questi tempi, forse da sempre – sono argomenti che pesano. Anche nelle urne.

La tassa sulla salute preoccupa i frontalieri
Il Quotidiano 22.12.2025, 19:00







