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Songs of Surrender degli U2 è una delusione, e un trionfo

L'ultimo album della band irlandese rilegge in versione acustica e minimalista 40 canzoni della loro storia discografica

  • 20 marzo 2023, 17:51
  • 14 settembre 2023, 09:01
  • MUSICA
  • POP & ROCK
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Quando si parla degli U2, hanno tutti ragione. Ormai hanno raggiunto uno status
universale: di loro e della loro musica si può dire tutto e il contrario di tutto. Rimangono un monumento del rock, certo. Lo dicono i numeri, che li rendono una delle band di maggior successo della storia, e il fatto che la faccia di Bono continui a spuntare tra le immagini dei telegiornali, anche se da sei anni la band non offre al suo pubblico un album nuovo. E quindi, c’è chi dice che gli
U2 hanno perso l’ispirazione, e potrebbe avere ragione. C’è invece chi dice che stanno preparando nuova musica che potrebbe essere la migliore della loro carriera, grazie al tempo e all’esperienza. Non sarebbero i primi a invecchiare come il vino pregiato, nel mondo del rock. Anche questo potrebbe essere vero. Hanno tutti ragione, quando si parla di U2. Ed è vero anche per il nuovo disco,
Songs of Surrender.

Qualcuno dice sia effettivamente un disco nuovo, altri dicono di no. Hanno ragione entrambi. Non ci sono canzoni inedite, ma quaranta pezzi scelti da (più di) quarant’anni di carriera e riarrangiati in versione acustica (o semi-acustica). Brani presi da dodici dei quattordici album di studio precedenti (non contiamo quello a nome Passengers): quasi tutti diventano più lenti, molti sono cantati un'ottava più in basso, o addirittura in una tonalità completamente diversa. I testi a volte sono leggermente modificati, le parole allungate fino a quasi raddoppiare la durata di alcune strofe.

Un trattamento nel segno del minimalismo e dell’essenzialità, dice qualcuno. Musica da ristorante, dice qualcun altro. Potrebbero avere ragione entrambi. Anche se, a dire il vero, credo che anche i clienti più distratti della peggiore bettola di Dublino si fermerebbero ad ascoltare la voce di Bono che dà nuova vita al pezzo che ha cantato al funerale di suo padre, Sometimes You Can’t Make It On Your Own. La voce che è assoluta protagonista di questo album, proprio perché la produzione di The Edge rappresenta un volontario passo indietro da parte del chitarrista, per offrire a Bono tutto lo spazio necessario. La voce che regge benissimo, spesso addirittura sorprende: arrivare a 62 anni con una tale capacità vocale non è da tutti, ma soprattutto si vede chiaramente il tentativo di evitare ogni manierismo, per arrivare a una qualche forma di (perdonatemi se suona ingenuo) sincerità. Per una rockstar della statura di Bono, è un fatto più unico che raro.

D’altra parte, però: che senso può avere Where The Streets Have No Name, senza quella chitarra che arriva da lontano e riempie il mondo? Gli U2 sono una band quintessenzialmente elettrica, che ha costruito la sua fortuna su una dimensione live enorme, eccessiva, una scala che ha fatto diventare leggendari perfino i fallimenti (ad esempio la volta in cui un gigantesco limone li intrappolò sul palco della tappa norvegese del PopMart Tour). Questo è un disco che sembra fatto per essere ascoltato con le cuffiette, tra te e te, lontano dalla liturgia collettiva dei grandi concerti. Songs of Surrender è stato pensato durante l’apice della pandemia Covid-19, ed è figlio di quello stato d’animo – così come il non casuale acronimo S.O.S. del titolo. Oppure si tratta solo di furbo marketing? Nell’era in cui le nuove generazioni dividono l’ascolto per playlist, che seguono l’occasione o lo stato d’animo, avere una versione “chill-out” o “lo-fi” (decidete voi quale tra queste etichette senza senso preferite) degli U2 da ascoltare mentre si studia o si fa altro, bè, potrebbe essere una mossa intelligente per far lievitare gli streaming. Anche in questo caso, hanno tutti ragione.

Songs of Surrender arriva sugli scaffali (chiedo scusa per l’espressione da secolo scorso) a poca distanza da Surrender, l’autobiografia di Bono, che usa 40 titoli di canzoni degli U2 per altrettanti capitoli. Verrebbe da pensare che anche il disco sia Bono-centrico, eppure a ben guardare si nota che le due playlist – quella dei titoli del libro e dell’album – non sono completamente sovrapponibili: questo è davvero un disco della band U2, anche se ovviamente la presenza del frontman è ingombrante (come potrebbe essere diversamente?). È un disco degli U2 proprio perché traspare l’impegno di Edge, Clayton e Mullen nell’offrire il loro contributo senza però rubare spazio a quello che considerano più importante, il racconto affidato alla voce di Bono (tranne nel caso di Stories for Boys, cantata da Edge come voce principale con risultati più che lusinghieri). Dopo due ore e mezza di ascolto, la domanda rimane: less is more, come diceva l’architetto Van der Rohe, e queste grandi canzoni diventano più grandi anche se riviste in una scala meno mastodontica? Oppure meno è semplicemente meno? C’è una grazia ritrovata, in queste versioni unplugged, oppure si tratta solo di canzoni riviste in età avanzata, che per definizione non possono rivaleggiare con l’impulso creativo puro che ha dato forma alle originali? I fan hanno davanti un tesoro, oppure un remake hollywoodiano che rappresenta, dal punto di vista artistico, la resa evocata dal titolo? Come sempre quando si parla di un progetto tanto esteso, capita che ci siano momenti altissimi e sprofondi che non meritavano probabilmente neppure di finire registrati. Come sempre quando si parla degli U2, hanno tutti ragione. Speriamo di poter continuare a parlare di loro ancora per molti anni.

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