FILM IN SALA

Andrea Arnold, Bird e il cinema adolescenziale

Da vent’anni la regista britannica racconta l’età della scelta, della fuga, dell’orizzonte, con stile tanto sporco quanto purissimo. E se nel frattempo è un casino, beccatevi quello

  • Oggi, 16:02
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Bird di Andrea Arnold, 2024

  • House Productions
Di: Alessandro De Bon 

Tra un meraviglioso dito medio a quattro mani e la poesia ruvida del protagonista di Bird Franz Rogowski, in sala in questi giorni dopo aver concorso alla Palma d’oro nel 2024, ci sono vent’anni di purezza. Non la purezza di un abito candido (di quelli, pochissimi), ma della materia prima – che può anche essere sudicia, appiccicosa, informe o semplicemente brutta da vedere. Vita compresa.

Il bello di Andrea Arnold, in questi vent’anni di cinema puro che vanno proprio da Wasp (2003) a Bird (2024), è che la mostra così com’è. Senza un filo di rimmel, senza una riassettata, senza una correzione di bozze. Il risultato? Un Oscar al Miglior cortometraggio (Wasp), tre Premi della Giuria a Cannes (Red Road, Fish Tank e American Honey), ma soprattutto un profilo tra i più interessanti non solo del cinema british, ma dell’intero panorama internazionale.

Basta riprendere il primo minuto di Wasp per capire che Andrea Arnold aveva le idee, e soprattutto lo sguardo, chiari: dopo trenta secondi la camera è sulle chiappe nuove e rosa di un toddler che la madre, passo spedito e nervoso, si sta portando appresso a mo’ di pacco Amazon. Altri trenta secondi, neanche un minuto del suo cinema, e quella mamma si sta menando con una vicina di casa che nemmeno Rey Mysterio e Eddie Guerrero, con la rispettiva prole per pubblico. Ed è lì, sul finire di quella scena, che mamma wrestler, il putto inconsapevole e le sue tre sorelle, indicativamente 2, 5 e 9 anni, sparano al buon vicinato un dito medio da nuoto sincronizzato. C’è la camera a spalla, c’è una donna – anzi quattro – per protagonista, c’è un sobborgo londinese, c’è una vita – anzi cinque – che urla. C’è Andrea Arnold.

Il cinema di Andrea Arnold è, prima di ogni cosa, biografico. Andrea nata nel Kent da madre giovanissima, per la precisione a Dartford (la città in cui è ambientato Wasp), cresciuta nella periferia della provincia inglese. Società ruvida, relazioni ruvidissime, ragazze a cui è chiesto di diventare donne prima ancora che a diventarlo sia il fisico, corpi che cambiano, donne adulte che lottano. Singolo, famiglia, società: i tre livelli delle storie di Arnold sono questi. Umanità sparsa, spesso in confusione o ben che vada disordinata, alla ricerca di un equilibrio, se precario va bene uguale. Nel suo cinema le protagoniste sono ragazze in fuga da un futuro che pare inevitabile perché a renderlo tale sono le donne che gli vivono intorno. Un futuro e vite in cui l’unica felicità possibile è volatile, effimera, dura il tempo di una scopata, di una dose, di una birra, di una sigaretta o di una canzone. Più di così scordatelo, o son botte.

E non è un caso che questi personaggi siano spesso interpretati non da attrici ma – appunto – da ragazze: non era un’attrice Katie Jarvis (Fish Tank), scelta dopo averla vista litigare con il ragazzo in stazione, non era un’attrice Natalie Press (Wasp), non era un’attrice Nykiya Adams (Bird), all’esordio.

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  • Keystone (foto d'archivio)
  • Moira Bubola e Alessandro Bertoglio

Gli uomini? Ecco, a proposito di botte, meglio restare sulle donne. A meno che non abbiano le piume: Bird. Vent’anni dopo Wasp Andrea Arnold è tornata nel Kent, è tornata a casa, e ha piazzato nel cuore del suo cinema del reale una meravigliosa allucinazione. Lui è Franz Rogoswki, un ragazzo in gonna che compare nella vita malmenata di Bailey, una dodicenne a cui l’esistenza sta chiedendo di crescere a 2X per sopravvivere a un padre che non è per nulla cattivo ma non è nemmeno altro, a un fratello che sembra essere andato già oltre il punto di non ritorno e una società limitrofa che se non spaccia e non ruba alla meglio perde tempo.

Ecco, lì in mezzo, tra cemento, tag e Stato non pervenuto, una mattina presto compare Bird. Che di Bailey, né più né meno, è la speranza. O forse un angelo, che nel cinema di Arnold però non può di certo avere aureola e ali bianche, tuttalpiù la zazzera e piume di poiana. Ah, il papà che non riesce ad essere tale, che vive in monopattino, si addobba di tatuaggi, sposa sconosciute e spera di fare i soldi con un rospo allucinogeno stimolandolo con Yellow dei Coldplay, è Barry Keoghan, perfetto in un ruolo che sembra doppiare i suoi occhi: celesti, ma dallo sguardo nero.

In Bird, così come in Fish Tank (2009), in Red Road (2006) o in American Honey, la gita fuori porta di Arnold che nel 2016 ha trovato nel midwest il Kent americano, tutto è schietto, palese. Tutto è così com’è, lì, non c’è bisogno di edulcorare niente. O meglio, non c’è nessuno per cui doverlo fare. Tantomeno il pubblico, che ha già la fortuna di essere da quella parte dello schermo. E allora anche il mare (siamo pur sempre in Inghilterra) è nuvoloso, ha le dune di cemento, l’acqua torbida e il panorama eolico. Così come casa è sempre e solo okkupata, popolare, fatiscente, violenta, abbandonata, dimenticata, assente. L’unica accettabile è quella sognata.

E in questo andirivieni esistenziale, in questa caotica ricerca di un orizzonte, la macchina da presa non può che essere a spalla; niente là in mezzo, tra Dartford e Glasgow, tra il Kent e lo Yorkshire, è stabile. Ci si mena, si scappa, si trema. Si balla. In tutti i sensi. Perché nel cinema di Andrea Arnold la musica è centrale, e pensata dalla prima all’ultima traccia, come tutto il resto, che può apparire caotico e casuale esclusivamente perché perfettamente scritto, disegnato e voluto. Le colonne sonore di Arnold sono Burial, i Fontaines D.C., i Blur, l’estasi hip-hop di Fish Tank o – tornando di nuovo alle origini – la Hey Baby di DJ Ötzy di Wasp, cantata e ballata tra un pub, un marciapiede e un abitacolo.

C’è un altro elemento che torna spesso tra le pagine di sceneggiatura e le sequenze di Arnold: gli animali. Bird e i rospi di papà, ma pure cavalli malati, cani (spesso cuccioli), volpi, vespe, falene, mucche (nel 2021 gira Cow, documentario completamente dedicato a una vacca). Animali che se non sono tentativi impotenti di quella felicità effimera, pertugi di dolcezza e normalità nel delirio quotidiano, ne sono l’opposto: un’altra vita, un’altra storia, spesso possibile perché minuscoli, invisibili, insetti. 

Dunque è tutto perso? No, anzi. Questi sono racconti imbevuti di umanità. Ok, spesso malconcia, ma con contraltari altrettanto indomabili, cocciuti e decisi a diventare altro. E in quei contrappunti, in quei desideri vitali, c’è un monito a non restare lì, a non lasciarsi andare ma a decidere dove andare, e farlo. Un inno a essere. Non a caso le stazioni, di treni o d’autobus che siano, sono centrali, e non solo per scovare attrici. Perché quello è il luogo in cui si sta per partire, o in cui si transita. Sporche sì, ma di passaggio. Lei, Arnold, inquadra quel momento, ma c’è anche un poi, e va esattamente nella direzione dei suoi personaggi.

Il cinema di Andrea Arnold, luminoso esempio dell’urgenza culturale britannica, è il cinema dell’età dello sviluppo, delle adolescenti. Se Ken Loach è il fotografo di quel che è successo, o sta succedendo, Andrea Arnold è la videomaker di quel che da lì potrebbe succedere. O diventare.

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