Tutti vogliamo bene a Jason Blum, profeta dell’horror americano nell’ultimo decennio (molto abbondante: il primo Paranormal Activity è del 2009). Ma non è che ci dia sempre e solo soddisfazioni.
Tipo: nel 2023 la sua Blumhouse ha prodotto L’esorcista – Il credente, film per il quale molti amanti dell’horror sono scesi in strada con i forconi, e Five Nights at Freddy’s, che se possibile era perfino peggio (con la non secondaria differenza che avevamo aspettative assai più basse). Lo stesso Five Nights at Freddy’s, però, ha incassato quasi trecento milioni di dollari in tutto il mondo. E quindi, inevitabilmente, ci hanno messo davanti il sequel.
Dunque, è il caso di fare un breve riassunto.
C’è una pizzeria infestata, dove alcuni teneri pupazzoni per bambini prendono vita. Se li incontri, finisci male. È, più o meno, la stessa storia del videogioco ideato e realizzato - praticamente da solo - da un ragazzone texano di nome Scott Cawthon. Scott si era occupato principalmente di videogame a sfondo religioso, finché nel 2014 ha pensato di darsi all’horror. Producendo quello che sarebbe diventato un successo mondiale.
Un videogame semplice come la sua premessa: sei dentro la pizzeria e devi sopravvivere agli agguati dei giocattoloni cattivi. Però, e qui sta il genio, Scott ha costruito il gioco intorno alla tecnica del jumpscare: il mostro che esce fuori dal nulla e ti spaventa, facendoti fare (appunto) un salto sulla sedia. Gli spaventi grossolani sono metà della ricetta che ha portato il gioco a occupare militarmente le menti del pubblico più giovane, composto da bambini tra le scuole elementari e le medie. L’altra metà è costituita da un’idea altrettanto semplice: trasformare in horror alcuni simboli dell’infanzia.
Non è un’idea nuova - Chucky, la bambola assassina, ormai ha quasi quarant’anni. Però, chi ha dieci anni non lo sa, quindi la vive come una novità.
La grande differenza tra un prodotto horror come La bambola assassina e uno come Five Nights at Freddy’s è, se vogliamo, di etica industriale e comunicativa: Chucky era un film per adulti - al massimo, per ragazzini che si infiltravano nei cinema nonostante i divieti -, qui invece siamo davanti a qualcosa di più subdolo. L’iniziale successo del videogame aveva, in effetti, tutte le carte in regola per essere una storia positiva: un prodotto indipendente, poco raffinato, esagerato ai limiti del camp, che trovava la strada per il paradiso senza l’appoggio dei grandi studios.
Poi però il percorso si è invertito, e la situazione è diventata più scivolosa: i bambini, oggi, scoprono Five Nights at Freddy’s attraverso i giocattoli venduti nei centri commerciali, perché la saga ha piazzato centinaia di milioni di dollari di merchandising.
Così arrivano al gioco, e solo dopo scoprono che quei pupazzoni apparentemente innocui diventano killer sanguinari. E se agli adulti quel tipo di horror fa generalmente ridere, non è detto che un bambino processi la narrazione nello stesso modo. Fare la morale all’horror è un esercizio inutile, però credo che sia sensato avere dubbi riguardo al fare soldi proponendo ai bambini qualcosa che non è adatto a loro, o che potrebbe avere degli effetti negativi.
Il discorso è complicato, ma diventa più semplice se pensiamo solo al film: qui non siamo davanti a dilemmi morali, ma a pellicole horror banali e generiche. Lo era il primo Five Nights at Freddy’s, lo è il secondo. Il secondo forse ha persino più problemi del primo, perché cerca di rendere conto di trame e sottotrame con cui, negli anni, Scott Cawthon ha sostenuto il suo videogame. Il risultato è un intricato labirinto senza uscita, sceneggiato proprio dallo stesso Cawthon: a parte i già citati momenti jumpscare - peraltro, di discutibile spaventevolezza, se non avete gli altrettanto già citati dieci anni - il resto del tempo ci si annoia.

Le novità in sala, da Eternity a Five Nights at Freddy’s 2
RSI Cultura 05.12.2025, 09:39
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