Cinema

Quando Aurelio De Laurentiis voleva produrre Lo Squalo

Ospite a Cliché, il produttore (e presidente del Napoli) racconta le occasioni mancate e la disciplina e l’amore necessari per lavorare con le grandi storie del cinema e dello sport

  • Oggi, 13:01
11:57

Aurelio De Laurentiis 

RSI Cliché 28.10.2025, 09:00

Di: Carla Clavuot 

«Due note, ed è subito paura» recitava il compositore Jack Black in L’amore non va in vacanza. Si riferiva alla colonna sonora de Lo Squalo, il film firmato da un giovanissimo Steven Spielberg che - cinquant’anni fa - riscriveva il cinema: da quel momento, l’estate non sarebbe più stata una stagione tranquilla.

Ma per l’imprenditore Aurelio De Laurentiis, quello squalo aveva anche il sapore di un’occasione mancata.

«Avevo diciott’anni», racconta, «volevo fare un film in Polinesia su uno squalo assassino, ma mio padre mi disse: “non mi rompere le scatole, vai a studiare”. Poi però lesse un romanzo fantastico e cambiò idea: “cerchiamo di prendere i diritti”. Così chiamammo zio Dino a Los Angeles, e lui rispose: “C’è già un certo Spielberg che lo sta girando”».

Un aneddoto che dice molte cose di De Laurentiis: il fiuto, il tempismo, l’arte di trasformare un’idea in industria. Da lì, forse, nasce il produttore che conosciamo oggi — quello che nel calcio come nel cinema sa che contano due sole cose: arrivare primi, o raccontare meglio la storia di chi c’è riuscito.
Tra l’altro, probabilmente ha avuto ragione Spielberg: ambientando il film nell’amena – e fittizia – Amity, dove le famiglie della classe media americana trascorrevano le vacanze estive, al terrore per la creatura degli abissi si aggiungeva l’inquietante sensazione della familiarità distrutta. Ma che film sarebbe stato, se il temibile pescione si fosse aggirato nelle acque di qualche sperduta isola della Polinesia come immaginava De Laurentiis?

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Ci sono pochi uomini d’affari che siano riusciti a trasformare la parola produttore in una categoria dello spirito. Aurelio De Laurentiis è uno di questi. Cresciuto tra ciak e proiezioni private, nipote di Dino — l’uomo che portò l’Italia a Hollywood, passando con disinvoltura da pellicole come Riso amaro a King Kong — Aurelio ha ereditato non tanto un mestiere, quanto un modo di stare al mondo: la convinzione che ogni cosa, dal film al campionato, sia un racconto da gestire, e – perché no – da vendere.

Prima di diventare il presidente del Napoli, De Laurentiis aveva già riportato in sala la commedia italiana, in un’epoca in cui sembrava un genere da archeologia industriale.
«Il cinema mi ha insegnato la disciplina e l’amore necessari per la propria professione». Le sue produzioni — dai cinepanettoni alle saghe familiari — sono state spesso etichettate come «commerciali», parola che spesso suona come un insulto, solo perché non abbiamo il coraggio di dire: funziona. Ecco, De Laurentiis funziona.
Nel calcio come nel cinema, applica la stessa regola: controllare tutto, spendere solo dove serve, e non lasciare mai che il protagonista si senta più grande del produttore.

«Gli elementi più importanti di un film sono la storia, la storia e la storia», e infatti ancora ricorda di quando voleva fare Lo Squalo prima di Steven Spielberg, prima ancora che lo scrittore Peter Benchley scrivesse il libro da cui è tratto il film cult che ha terrorizzato milioni di persone.

Non stupisce se anche il Napoli, sotto di lui, è diventato una saga seriale perfetta per lo streaming: c’è il pathos, c’è l’ironia, ci sono gli imprevisti contrattuali e il colpo di scena finale — lo scudetto, naturalmente, con tanto di titoli di coda in blu e bianco.
E se qualcuno lo accusa di trasformare tutto in business, Aurelio sorride: è lo stesso sorriso di chi, quarant’anni fa, riempiva le sale con un film di Natale. Perché per lui il cinema e il calcio sono la stessa cosa: due industrie in cui contano la storia, gli eroi, e il popolo che ne resta sempre lo specchio finale. Dopo tutto, l’unica cosa peggiore di un fischio, è una sala mezza vuota.

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