Fu il teologo Carlo Molari, recentemente scomparso, a sostenere che la parola «Dio» è un termine umano, una costruzione linguistica nata per concettualizzare un’entità trascendente e misteriosa, irriducibile alla piena comprensione umana. Un nome, dunque, attribuito a una realtà che, per sua natura, sfugge alla nominabilità e resta inaccessibile nella sua totalità. In modo analogo, Simone Weil, scrittrice, filosofa e intellettuale ebrea francese, pur recitando quotidianamente il Padre Nostro, era convinta che Dio fosse anzitutto un’assenza: una realtà che si ritira piuttosto che manifestarsi, permettendo all’essere umano di avvicinarvisi solo attraverso il vuoto e il sacrificio.
Per secoli, la tradizione ebraico-cristiana ha parlato di Dio come Padre. Ne parla con finezza Giorgio Ficara, critico letterario, saggista e professore emerito di letteratura italiana all’Università degli Studi di Torino, in una serie radiofonica trasmessa su Alphaville fino al 24 ottobre 2025, ispirata a un suo saggio edito da Einaudi. In essa, Ficara propone una rassegna letteraria dedicata alle figure dei padri deboli e fragili, padri controcorrente, sfocati e malinconici, in netto contrasto con l’immagine dominante del «padre forte». Tra questi, nell’ultima puntata, emerge il Dio evocato da Weil nella sua intensa autobiografia spirituale, Attente de Dieu, raccolta di scritti pubblicati postumi nel 1950 dalla casa editrice La Colombe, sotto la curatela di Padre Joseph-Marie Perrin.
Weil scrisse quei testi poco prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, in un tempo in cui il Dio ebraico-cristiano, colui che dall’alto dei cieli sostiene e guida l’uomo, stava per perdere ogni credibilità. Dov’era quel Dio mentre centinaia di migliaia di donne e uomini venivano annientati dal male assoluto dell’Olocausto? La domanda ha attraversato il pensiero di molti, tra cui il teologo conservatore Joseph Ratzinger, che ad Auschwitz nel 2006 affermò che di fronte agli orrori del Novecento le parole si dissolvono, lasciando spazio solo a un silenzio sbigottito, a un «grido interiore verso Dio: “Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?”».
Dio Padre (10./10)
Alphaville: le serie 24.10.2025, 12:30
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Una risposta definitiva è impossibile. Si può solo abbozzare, come fece Weil, l’idea che Dio non si manifesti come una presenza impositiva, non sia una forza che interviene e dirige dall’alto, ma piuttosto una realtà che si ritrae, che scompare dal mondo, compiendo un passo indietro per consentire all’essere umano e alla creazione di esistere liberamente, nel bene come nel male. Di esistere anche nella contraddizione, come compimento ma anche come mancanza, come pienezza e perdita.
Per Weil, l’«assenza di Dio» non equivale a una negazione totale, bensì a un atto di amore e umiltà. Il mondo è un universo dominato dalla forza, dalla necessità e dall’afflizione, e proprio in questo contesto l’«assenza» di Dio impone agli esseri umani di cercarlo attivamente. Da qui nasce l’attesa, il silenzio davanti a Dio, che, per quanto inconoscibile, comunica proprio nel silenzio e nella resa dell’uomo. Un Dio ritirato, che non parla attraverso l’istituzione ecclesiastica, i dogmi o i sacramenti (da cui Weil si tenne distante, preferendo rimanere sulla «soglia»), ma che si rende presente là dove l’uomo si annulla, si umilia, si fa silenzio. Come avevano intuito i grandi mistici Teresa d’Avila e Giovanni della Croce. Un Dio intimo, Padre se si vuole, ma non per presenza bensì per sottrazione, per annullamento.
In definitiva, Weil non credeva nel Dio tradizionale. Vedeva piuttosto nell’aspirazione umana al bene, alla bellezza, alla giustizia, alla verità, una testimonianza della sua esistenza. Per lei, Dio si affacciava al mondo come una promessa che si realizza per sottrazione, scomparendo, annullandosi. Da qui la categoria dell’attesa, forse l’unico attributo capace, più di altri, di descrivere ciò che l’uomo immagina possa essere l’inconoscibile, Dio.
Il padre sulle spalle
Debolezza del patriarcato in letteratura
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