Letteratura

Hans Fallada, lo scrittore “morto”

Un destino (disperatamente) tedesco

  • 21 luglio 2023, 00:00
  • 31 agosto 2023, 11:26
Hans Fallada
Di: Mattia Mantovani

Per essere perfetti creatori bisogna essere “morti”, diceva il giovane Thomas Mann in un celebre passo del “Tonio Kröger”. L’espressione potrebbe sembrare piuttosto sibillina, ma in realtà circoscrive e restituisce un’evidenza di abissale profondità: ogni grande creazione artistica, per esprimere la verità della vita, non può che nascere dalla distanza, perfino dalla negazione e dal rifiuto della vita stessa. L’opera letteraria di Rudolf Ditzen, meglio noto con lo pseudonimo di Hans Fallada, è una delle più intense e sofferte espressioni di tale consapevolezza declinata in chiave “disperatamente tedesca”, per riprendere un’altra e non meno celebre affermazione dell’autore del “Tonio Kröger”.

Quando comincia a scrivere, nel 1918, l’allora venticinquenne Rudolf Ditzen (era nato il 21 luglio 1893 a Greifswald, sulle rive del Mar Baltico) si è infatti lasciato alle spalle, non senza sostanziali ammaccature, una giovinezza molto tormentata. E’ un morfinomane -e lo sarà tutta la vita, con esiti catastrofici- per lenire i postumi di un infortunio occorsogli all’età di quindici anni, ha trascorso parecchio tempo in vari istituti di rieducazione e nel 1911 ha perfino ucciso in duello -tentando contemporaneamente di suicidarsi- un compagno di scuola. Si trova quindi nell’obbligo di pubblicare sotto pseudonimo, perché proviene da una rispettabile famiglia borghese e il padre, noto magistrato, vuole evitare ulteriori scandali.

La scelta dello pseudonimo prende spunto da due fiabe dei fratelli Grimm. Il nome “Hans” è tratto da “La fortuna di Hans” e vuole significare l’assoluta libertà espressiva (Hans riceve in dono una pepita d’oro che scambia più volte, a proprio piacimento), mentre “Fallada”, con la semplice aggiunta di una consonante, è tolto da “La piccola guardiana di oche”, dove c’è un personaggio, il cavallo bianco Falada, che riesce ad esprimere la verità anche dopo che gli è stata mozzata la testa. La simbologia, in entrambi i casi, è assolutamente chiara.

Hans Fallada si rivela subito uno scrittore di straordinario talento. Nell’immediato periodo post-bellico e negli anni della Repubblica di Weimar pubblica una serie di romanzi che si addentrano nelle zone più oscure di una realtà dove tutte le regole sono saltate e i valori morali hanno subito la medesima svalutazione che ha investito i valori monetari (è la stessa realtà infernale poi magistralmente rievocata da Ingmar Bergman ne “L’uovo del serpente”). E’ quindi un “perfetto creatore” proprio perché è “morto”, nella misura in cui scrive sotto pseudonimo e racconta di una società di morti viventi e di una vita che egli stesso, in prima persona, non vive. Come se non bastasse, anche il successo arriva nel momento sbagliato, nel 1932, col romanzo “E adesso, pover’uomo?”, che scava con precisione chirurgica nel ventre molle dell’epoca weimariana. Il libro viene tradotto in molte lingue e ne viene tratto anche un film, ma nel frattempo in Germania si è già diffusa la peste hitleriana e Fallada, coi suoi romanzi che dragano il fondo melmoso dal quale è sorto il nazismo, subisce per così dire una duplice condanna a morte: come scrittore, è considerato inutilizzabile in senso propagandistico, e più in generale viene bollato come “persona non grata”. Tuttavia, a differenza di altri scrittori, decide di rimanere in Germania per fronteggiare il nazismo dall’interno, con una resistenza passiva -non priva di ambiguità e di concessioni anche dolorose- che gli costerà molte critiche da parte dei letterati che hanno scelto l’esilio e da ultimo lo renderà totalmente inviso anche ai nazisti.

Negli anni della “peste bruna”, Fallada vive quasi come un reietto in un podere non lontano da Berlino, continua a fare uso smodato di morfina e viene più volte ricoverato in cliniche per malattie nervose, ma non smette di scrivere. Nel settembre 1944, rinchiuso in un manicomio criminale per un presunto atto di violenza ai danni della moglie, scrive di nascosto le proprie memorie in un fascicolo crittografato che si sarebbe dovuto intitolare “L’autore non gradito. Le mie memorie dei dodici anni sotto il terrore nazista”. Il libro è stato pubblicato solo alcuni anni fa, nel 2009, col titolo “Nel mio paese straniero”, ed è uno documento storico e letterario di inestimabile valore, con una pregiatissima qualità di scrittura, che parte da una base espressionistica e spesso perviene allo spicco solitario del simbolo.

Ma per la creazione davvero perfetta e il capolavoro assoluto, il “morto” Fallada ha bisogno di essere ancora più “morto”. Alla fine della guerra, mentre è ricoverato in una clinica per malattie nervose di Berlino e versa in uno stato di profonda depressione (alla morfina, ormai da anni, si è aggiunto l’alcol), un conoscente gli porta da leggere un fascicolo di atti della Gestapo. Tra le tante storie, Fallada viene letteralmente folgorato da quella dei coniugi Otto ed Elise Hampel, che a Berlino, nei primi anni di guerra, si erano opposti alla dittatura disseminando la città di cartoline con appelli alla rivolta e alla ribellione. Scoperti e incarcerati, erano stati infine ghigliottinati nel 1943. Fallada ne ricostruisce la storia in un lungo articolo e in seguito nello straordinario romanzo “Ognuno muore solo”, scritto in soli ventiquattro giorni nell’autunno 1946. Il libro esce l’anno successivo, quando Fallada è veramente morto. Il 5 febbraio 1947, infatti, viene trovato privo di vita, non si sa se per suicidio o per overdose.

“Ognuno muore solo” conosce una rapida notorietà (viene subito tradotto anche in Italia, dove Primo Levi lo definisce «il libro più importante che sia mai stato scritto sulla resistenza tedesca al nazismo») ma poi cade nell’oblio, da dove è infine riemerso solo alcuni anni fa, dopo la prima traduzione in lingua inglese. Ancora più recentemente, nel 2016, Vincent Perez ne ha tratto un bel film, “Lettere da Berlino”, con Emma Thompson, Brendan Gleeson e Daniel Brühl. Pubblicato in lingua italiana da Sellerio, è un libro scritto da un “morto” ed è davvero la “creazione perfetta”, perché nasce dalla distanza, dal rifiuto e dalla negazione, dice la verità della vita e affonda nella carne viva degli orrori del “secolo breve”. E soprattutto perché ci parla, oggi più che mai, da una vicinissima lontananza, con la perfetta e conchiusa incontrovertibilità che solo la morte possiede.

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