Neanche il tempo di metabolizzare la notizia - ovvero che i Radiohead, la band simbolo del rock degli ultimi trent’anni, questo autunno tornano in tour per la prima volta dal 2018, a Londra, Copenaghen, Madrid, Berlino e Bologna - che già compaiono le prime crepe. Non è una reunion, anzi, semplicemente il gruppo britannico era in pausa, sparpagliato in vari progetti paralleli. Su tutti i The Smile, che avevano assorbito i due galli nel pollaio Thom Yorke e Jonny Greenwood, con tre dischi in tre anni, concerti per tutto il 2024 e la sensazione, a un certo punto, di poter sostituire a lungo l’astronave madre, perlomeno nella scala delle priorità dei suoi autori. E invece no, «con naturalezza», dicono, e senza pretesa, pochi mesi fa i Radiohead si sono chiusi a provare in studio, hanno ritrovato il piacere di suonare insieme e dunque rieccoli qui, su un palco, insieme.

Polemiche sul nuovo tour dei Radiohead (Il pomeriggio di Rete Tre)
RSI Cultura 16.09.2025, 13:00
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Primo problema: non c’è un disco alla base, niente di niente. Non c’è, almeno da annunci, neanche nuova musica in arrivo, per quanto non sarebbe assurdo, visti i precedenti, che “testassero” inediti direttamente con il pubblico dal vivo - ma nel caso sarebbe una sorpresa non annunciata. Certo, vogliono rivedere i fan, ma i più maliziosi hanno individuato in quest’operazione così disimpegnata una palese voglia di lucrare sull’amore della gente. Dall’altro lato, in queste settimane sono stati al centro di polemiche e iniziative di boicottaggio per le loro posizioni su Israele, con Yorke su tutti sempre vago sul tema e strenuo difensore, in più occasioni, dell’opportunità di esibirsi a Tel Aviv e dintorni. «Suonare in un paese non significa appoggiarne il governo. Per esempio, non appoggiamo Netanyahu così come non appoggiamo Trump», è la sua difesa ricorrente, che non l’ha tenuto al riparo comunque da contestazioni, anche nei live solista (l’ultima risale al 2024, in Australia).
Ecco, se si parlasse di un qualsiasi altro artista, forse, non ci sarebbe nessuno scandalo eclatante: i musicisti tiepidi sulla questione di Israele, anche per opportunità, sono centinaia, e lo stesso vale per l’attaccamento ai soldi, non da biasimare in maniera così radicale. Nel senso: alla fine, è un lavoro. Il problema è che questi sono i Radiohead e gli standard anche solo morali a cui hanno abituato il pubblico sono alti e diversi. Yorke e soci, ecco, sono (o sono stati?) teoria e pratica. Certo sono stati i picconatori del rock per come lo si conosceva negli anni Novanta, portandolo nel 2000 con OK Computer e poi celebrandone il funerale con Kid A e via discorrendo, liberandosi dell’immagine della band vincente, che pure avrebbe fatto le loro fortune, e scegliendo di spiazzare il pubblico ogni volta. E sono stati, ecco, anche pratica, come nel caso di In Rainbows, il loro album del 2007 distribuito in digitale con un sistema “a offerta libera”, un approccio pionieristico ma anche critico - uno dei tanti che hanno adoperato, s’intende - nei confronti del mercato e dell’industria tutta.
Anche per questo ha stranito il meccanismo con cui stavolta sono stati messi in vendita i biglietti del nuovo tour, un’odissea gestita tutta dal loro sito web che per evitare eventuali bot e bagarini - o almeno, queste erano le intenzioni - ha previsto prima una sorta di estrazione tra chi si registrava online e poi lunghe code, tra i vincitori della fatidica “riffa”, per accedere al portale in questione, da cui acquistare un massimo di quattro ticket. Risultato: c’è chi non ha mai avuto neanche conferma dell’avvenuta iscrizione e chi, ancora, ha perso oltre mezza giornata in fila per scoprire che le disponibilità erano ormai esaurite, e ritrovarli puntualmente - e a prezzi esorbitanti - nei siti di bagarinaggio. Il tutto tagliando fuori le piattaforme classiche di vendita, ma affidandosi - lato produzione - a una multinazionale, Live Nation, con prezzi per platea e parterre a tre zeri, in linea con quelli di oggi. Anche qui, niente di strano: Live Nation e le altre multinazionali producono decine di grandi eventi in questo stile, ma se si considera che, per esempio, i Cure sono da anni attenti a calmierare i costi per gli spettatori, ecco, i Radiohead - che, di nuovo, sono i Radiohead - non ne escono pulitissimi.
Si poteva fare di più? Si poteva fare diversamente? Chissà. Nel dubbio, centinaia di migliaia di fan - anche a giudicare dai commenti sui social - sono delusi. Ma più che un tradimento, questo, somiglia a un mollare le redini. Magari per motivi di comodità, magari per altro. Sta di fatto che, dopo trent’anni (Pablo Honey, il loro debutto con Creep, è del 1993), è come se per i Radiohead fosse ormai insostenibile… essere i Radiohead. E cioè: gli eretici per eccellenza, i radicali a ogni costo. Perché il mondo cambia e le necessità degli artisti con lui. Dall’altro lato, si è costruita una carriera su una purezza e sul mettere in discussione le regole stesse dell’industria, diventando un bug nel sistema, come nel loro caso, il pubblico, dalla propria prospettiva, si aspetta che si continui sempre su quella strada. Non basta rompere una volta le regole: bisogna romperle a ogni uscita, a ogni tour, a ogni occasione. Niente di nuovo, s’intende, a parte i protagonisti: da sempre il rock è contraddizione, musica a vocazione ribelle che, perlomeno a questi livelli, smuove milioni - di dollari, di persone, di ascolti - e a volte si finisce per farsi i conti. Forse, i Radiohead sono passati a incarnare una di quelle contraddizioni che prima criticavano, e non è detto che questa svolta non sia, loro malgrado, comunque rappresentativa dei tempi che corrono.