Musica pop

Sono ancora i “grandi vecchi” a riempire gli stadi

Dagli Oasis a Springsteen, i mostri sacri tengono in piedi l’industria dei concerti, mentre le giovani leve faticano. Perché il ricambio generazionale stenta a ingranare?

  • 13 ottobre, 15:04
  • 13 ottobre, 15:08
I fratelli Gallagher sanno ancora come si fa

I fratelli Gallagher sanno ancora come si fa

  • IMAGO / ZUMA Press
Di: Voi che sapete.../RigA 

Rispolverato il marchio Oasis, i litigiosi fratelli Gallagher stanno riempiendo gli stadi di tutto il mondo con il loro reunion tour. A 76 anni, Bruce Springsteen dimostra di essere sempre il Boss e ti riempie San Siro con due tutto esaurito. A Montreux le serate con più pubblico sono state quelle con Santana e Diana Ross, entrambi in zona 80. Ed è una lista parziale. Di contro, giovani protagonisti della musica contemporanea faticano a riempire stadi forse (ancora) troppo grandi per loro.

Se prendiamo in esame il pubblico, non è solo una questione generazionale. Come evidenzia Gian Luca Verga, giornalista musicale della RSI, questi grandi vecchi sono amati anche dai più giovani, forse perché «grazie alla buona musica con cui sono cresciuti in casa hanno identificato in questi artisti un punto di riferimento». L’artista affermato, prosegue Verga, «non ti tradisce, ti racconta delle cose vere, suda, canta, parla. Non deve agghindarsi, non deve scegliere look un po’ circensi per arrivare».

Una credibilità frutto di anni passati a masticare il pane duro della gavetta, fra concerti in locali di infimo ordine e altre peripezie, lavorando disco dopo disco per raggiungere la consacrazione. In questo senso lo stadio, per loro, era un punto d’arrivo. Per le nuove leve, invece, è una manifestazione di status. Con il rischio di andare a sfracellarsi: «Perché una Elodie, che ha pochi dischi in repertorio, che è un prodotto molto televisivo, deve per forza suonare in uno stadio?» si domanda Verga. 

Star (o supposte tali) di questi anni ’20 che faticano a tenere il passo di quelle attempatelle, ma sono delle celebrità sui social. Sono nuove logiche che governano l’industria della musica, in cui l’artista rischia però di squagliarsi alla prova del pubblico. Per molti è destinato a restare un sogno avere fan come quelli che al Live Aid (1985) cantarono We Are the Champions assieme ai Queen: uno degli esempi citati da Gian Luca Verga per commentare i tempi che cambiano, «ma anche gli Oasis sono musicisti e sanno comporre il pop, che è un’arte. E sul palco ci sanno stare. Portano anche i loro messaggi, che non saranno quelli di un Bob Dylan ma comunque li portano».

Anche in Italia, dove la questione dei flop negli stadi si ripropone ciclicamente, c’è chi riesce a fare ottimi numeri: è il caso di Ultimo, che «probabilmente ha una fanbase di giovani o giovanissimi che intravedono in lui un punto di riferimento vero» è l’opinione di Verga. Sulla scena internazionale, uno dei fenomeni con maggior eco sono le sudcoreane Blackpink, che negli scorsi mesi hanno richiamato 50mila persone all’ippodromo La Maura di Milano, 160mila (con tutto esaurito) nelle due serate allo Stade de France, 148mila nei due concerti a Wembley, primo gruppo femminile di K-pop a esibirsi nel prestigioso stadio britannico. 

E allora perché altri arrancano? «Oggi l’artista dev’essere un prodotto da consumare in fretta, perché poi ne arriva un altro» riflette Verga. L’industria discografica non vive certo un periodo di massimo splendore, le piattaforme di streaming pagano poco gli artisti e anche parametri come il disco d’oro, osserva Verga, oggi sono poco attendibili, perché al massimo «portano qualche migliaio di euro; un tempo un milione di dischi, in Italia, era il disco d’oro. Oggi li danno via come le michette, ma sono fasulli». Lo stadio, il palazzetto, il tour diventano le cartine tornasole, ma intanto “fare” un grande stadio dà benefici d’immagine, dà l’idea di essere arrivati, permette di vendere il prossimo tour a prezzi maggiorati.

Parole che ritraggono un’industria affamata di nuovi protagonisti da proporre al pubblico, ma che negli anni ha perso quella struttura incaricata di selezionarli andandoli a cercare in provincia, scommettendo su di loro, talvolta investendo a fondo perduto. «Oggi è one shot: un tormentone, se va bene forse un altro. Ma se non gira nelle airplay, non è selezionato su Spotify, non puoi crescere» conclude Verga.

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Sulle spalle dei giganti…

Voi che sapete... 09.10.2025, 16:00

  • Imago/Ritzau Scanpix
  • Martino Donth e Giovanni Conti

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