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“Quello di Hamas sarà un sì condizionato, ma può essere l’inizio della fine della guerra”

Intervista a un’esperta del Middle East Institute per capire le lacune del piano di pace di Trump e l’ottimismo americano

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Gaza: nuovo ultimatum ad Hamas

Telegiornale 03.10.2025, 20:00

Di: Massimiliano Herber (con Fabien Ortiz), corrispondente RSI negli Stati Uniti

Dopo una vita a studiare i rapporti tra israeliani e palestinesi non è il nuovo ultimatum di Donald Trump ad Hamas che sorprende Lucy Kurtzer-Ellenbogen. Anzi, la proroga fino a domenica sera per accettare o meno il piano di pace su Gaza in 20 punti è secondo lei un segnale positivo. “Quando Trump dice: ‘Diamogli ancora un po’ di tempo’, significa che c’è una forte volontà di chiudere l’accordo - sottolinea l’esperta del Middle East Institute, il più vecchio centro studi sulla regione a Washington D.C. -. “Che c’è la percezione se si tratterà di un ‘sì’, anche se solo un ‘sì, ma…’”. 

Crede dunque che la risposta di Hamas sarà positiva? 

Penso che da Hamas arriverà un “sì, ma”. Ed è qui che inizieranno le difficoltà, perché di fatto abbiamo visto un “sì, ma” anche da Israele... A volte, però, in certe trattative, un po’ di ambiguità serve: permette a ciascuna parte di salvare la faccia e dire di sì.

Cosa la fa propendere per l’accettazione di Hamas di questa road map?

Oggi il mondo arabo e musulmano è compatto e schierato sull’idea che Hamas non possa avere un ruolo futuro a Gaza: è questo il vero punto di pressione su Hamas.

Quali le ragioni dei tentennamenti di Hamas?

Una delle difficoltà è che esistono due leadership diverse: quella di Hamas a Gaza, ormai ridotta, e quella in esilio, soprattutto in Qatar. Due centri di potere che non sempre vanno d’accordo su cosa fare.

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Lucy Kurtzer-Ellenbogen, esperta del Middle East Institute

  • RSI

Ma lei da profonda conoscitrice del Medio Oriente e dei rapporti tra i due popoli lunedì cosa ha pensato dopo la presentazione di Trump e Netanyahu alla Casa Bianca?

Credo che qualunque progresso verso un accordo di cessate il fuoco sia un segnale positivo. È tempo di avere sul tavolo un piano per porre fine a questa guerra. Pure se sono, naturalmente, consapevole che ci sono molte difficoltà legate al piano.

Cosa rende diverso questo piano di pace dai tentativi precedenti portati avanti dall’Amministrazione Trump?

Penso che gli Stati arabi e gli Stati Uniti siano pronti affinché le parti pongano fine a questa guerra. Con la pressione che si sta esercitando, credo che vedremo gli Stati Uniti spingere Israele verso un “sì”.

L’impressione è che Trump continua a seguire lo schema degli Accordi di Abramo. È cambiato qualcosa nella visione americana per la regione?

Nel 2020 Trump presentò un piano che definì “soluzione a due Stati”, ma lontana da quella che allora aveva il consenso internazionale. Nel suo secondo mandato, invece, ha evitato di parlare di orizzonti politici oltre Gaza. Il piano attuale resta cauto, lascia solo intravedere un possibile ruolo dell’Autorità palestinese e, in prospettiva, uno Stato palestinese. È il segnale, credo, dell’influenza esercitata dai Paesi arabi, pronti a contribuire alla stabilizzazione solo se c’è almeno un orizzonte politico credibile.

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Il post odierno del Presidente americano su Truth Social

In settimana molti analisti hanno evidenziato le ambiguità e le lacune di questo piano di pace. Perché questa volta dovrebbe avere successo?

Questo piano non piace a nessuno fino in fondo. La domanda è: c’è abbastanza da accettare, o almeno da mandare giù, per poter arrivare almeno alla fine della guerra? Porre fine alla guerra è l’urgenza più immediata. Il piano in 20 punti prevede prima di tutto questo. E poi traccia una visione di ciò che potrebbe accadere successivamente. È lì che il diavolo si nasconde nei dettagli e dove le cose possono facilmente complicarsi, soprattutto considerando l’orizzonte temporale previsto così lungo…

Perché?

Una tempistica troppo lunga rischia di far deragliare tutto: lo dimostra il fallimento degli Accordi di Oslo, che prevedevano cinque anni per arrivare a una soluzione e invece, dopo oltre trent’anni, il conflitto è ancora aperto. Il tempo, insomma, dà spazio a chi vuole sabotare il processo.

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