Lo scontro armato a distanza, iniziato nella notte tra il 12 e il 13 giugno 2025, tra lo Stato di Israele e la Repubblica Islamica dell’Iran pare essersi fermato. Con una particolare enfasi che sembra storicizzare un evento di fatto ancora in corso, la stampa internazionale lo ha immediatamente ribattezzato come “la guerra dei 12 giorni”.
Una guerra anomala, al termine della quale tutti gli attori coinvolti si sono detti vincitori.
Hanno vinto gli Stati Uniti di Donald Trump che ha annunciato al mondo - con la platealità da supereroe, oltre alla volgarità del linguaggio, che lo caratterizzano - il proprio “straordinario successo militare”, avendo bombardato e completamente distrutto gli impianti nucleari di Fordow, Natanz e Isfahan e con essi, a detta sua, l’intero controverso programma nucleare iraniano.
Si è detto vincitore Netanyahu che ha iniziato lo scontro, bombardando Teheran, e che, grazie all’intervento militare dell’alleato americano, afferma di aver neutralizzato il suo principale nemico nella regione, l’Iran.
Ha vinto l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran, che - nonostante il paventato cambio di regime - è rimasto vivo e ancora alla guida del proprio Paese.
Si aggiungono a questa numerosa lista di vincitori quelle cancellerie europee - attrici passive del conflitto - che, nella migliore delle ipotesi, hanno espresso un silente consenso alla guerra o che, nella peggiore delle ipotesi, ovvero nel caso del cancelliere federale tedesco Friedrich Merz, hanno ringraziato Israele per essersi preso la briga di eseguire “il lavoro sporco per conto dell’intero Occidente”.
Un happy end degno di una fiction più che della Storia. Ma la storia delle guerre comporta sempre qualcuno sconfitto; non fa eccezione la storia di questa guerra.
Hanno perso senz’altro le persone morte durante questi bombardamenti; le cifre delle rispettive fonti ufficiali parlano di 29 cittadini israeliani e quasi 1000 iraniani uccisi, a cui si aggiungono oltre 3000 feriti su entrambi i fronti.
Hanno perso i numerosi cittadini iraniani che sono scappati dalle proprie città sotto i bombardamenti per mettersi in salvo in Turchia, dove per entrare non hanno bisogno di visto.
Siamo andati sul confine turco-iraniano a raccogliere le loro testimonianze. Data la censura e la repressione esercitata dal regime degli ayatollah, abbiamo riscontrato estrema riluttanza a mostrarsi alla telecamera e a svelare le proprie identità. Ma qualcuno di loro ha accettato di parlare (il video-reportage in cima all’articolo)
In fuga da Teheran
Fotografie di Italo Rondinella