Prima l’abbordaggio di una nave cargo venezuelana carica di petrolio da parte dei marines statunitensi, poi la fuga dal Venezuela della Premio Nobel della Pace Marina Corina Machado, resa possibile grazie all’aiuto logistico delle truppe USA dislocate da mesi nel mar dei Caraibi. Il Venezuela vive ore di massima tensione, con la minaccia costante di nuovi attacchi e incursioni da parte dell’ingente dispositivo militare schierato da Donald Trump, con diverse navi e cacciabombardieri e ben 15’000 uomini pronti ad intervenire su ordine della Casa Bianca.
Il presidente Nicolas Maduro è sempre più solo, gli alleati di peso del suo regime come Cina, India e Iran hanno espresso dichiarazioni formali di appoggio, ma non si vedono movimenti di truppe o una reale intenzione di intervenire a fianco dell’alleato sudamericano in caso di conflitto. La presenza della Machado in Europa, poi, è un ulteriore elemento di pressione, già che la sua voce è riconosciuta come la più autorevole tra i dirigenti dell’opposizione e si prevede che incontri diversi governi vicini alla causa anti-chavista. Ci sono tutti gli elementi per seminare il panico, eppure a Caracas la vita continua normalmente, per quanto possa essere considerata normale la quotidianità in un Paese devastato da 20 anni di crisi economica, con salari e stipendi da fame, la mancanza di interventi di manutenzione nei servizi essenziali e una produzione industriale pressoché inesistente.
La pensione di un dipendente pubblico non supera i tre dollari al mese, il costo della vita è proibitivo, molta gente sopravvive grazie alle rimesse mandate dai famigliari all’estero. Quasi nove milioni di persone hanno lasciato la nazione sudamericana, praticamente un terzo della popolazione, e non c’è famiglia che non abbia uno o più componenti all’estero. Gli edifici di Caracas sono semi deserti, a rimanere sono soprattutto i più anziani, che fanno i salti mortali per poter rimediare medicine o accedere a ospedali collassati e senza mezzi. La rete elettrica è precaria e si ripetono i blackout totali o parziali, molti sono obbligati a fare due, tre lavori alla volta o a ricorrere al baratto per poter sbarcare il lunario.
Anche l’industria petrolifera, l’unica ricchezza del Paese dalle riserve di greggio più grandi al mondo, è in profonda crisi. Nel 2010 il Venezuela produceva 3,5 milioni di barili al giorno, oggi sono meno di 700’000 e sono destinati per lo più come merce per pagare i corposi prestiti elargiti dalla Cina ai governi di Hugo Chavez e poi di Nicolas Maduro. In questo panorama disastroso, continua la repressione del regime: ci sono ancora più di 800 detenuti politici, la polizia politica (SEBIN) fa continui posti di blocco alla ricerca di possibili nemici della rivoluzione o semplicemente per estorcere denaro con la minaccia di un arresto sommario.
L’ex governatore oppositore Alfredo Diaz è stato trovato morto la settimana scorsa nella sua cella del carcere dell’Helicoide e si trovano ancora detenuti alcuni cittadini stranieri, come il cooperante italiano Alberto Trentini, rinchiuso da un anno senza che sia nemmeno iniziato un processo a suo carico. Il venezuelano che è rimasto in patria è così stretto tra la paura di cadere nelle maglie repressive del regime e la lotta per la sopravvivenza: c’è poco spazio per pensare alla possibilità di un dopo Maduro. Nessuno si augura una guerra vera e propria, la rassegnazione lascia poco spazio alla speranza, mentre le compagnie aeree internazionali da giorni hanno smesso di operare contribuendo di fatto all’isolamento del Paese. Il Venezuela si prepara così ad un Natale surreale, nel tramonto di un regime che stenta a cedere di fronte alla più grade potenza militare del Pianeta.

Venezuela: USA sequestrano petroliera
Telegiornale 11.12.2025, 12:30








